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relazione sui sequestri di persona a scopo di estorsione
(Relatore: senatore Pardini)
PARTE SECONDA

 

il sequestro sardo

Con la legge n. 755 del 27 ottobre 1969 venne istituita una Commissione parlamentare d'inchiesta sui fenomeni della criminalità in Sardegna. A presiederla fu il senatore Medici che il 29 marzo 1972 inviò alle Presidenze della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica una relazione approvata a maggioranza dalla Commissione. Alla relazione vennero allegati dei documenti, alcuni dei quali approfondivano in modo analitico e dettagliato il fenomeno dei sequestri di persona

(Camera dei Deputati, V Legislatura, Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della crirninalità in Sardegna, Relazione alla Commissione, Relatore senatore Medici, Doc. XXIII, n. 3, 29 marzo 1972. La relazione di minoranza fu firmata dall'onorevole Alfredo Pazzaglia. I documenti allegati sono in ibidem, Doc. XXIII, n. 3-bis. Sono soprattuto G. PUGGIONI e N. RUDAS, Caratteristiche, tendenzialità e dinamiche dei fenomeni di criminalità in Sardegna; G. PANICO, Elenco dei sequestri di persona a scopo di estorsione in Sardegna dal 1965 al 1971; G. PANICO e G. OLIVA, Analisi di alcuni aspetti del sequestro di persona).

Nel quadro della recrudescenza e della eccezionale gravità di numerosi delitti che avevano caratterizzato l'isola in quegli anni, un'attenzione particolare venne data alle caratteristiche, in parte nuove, che veniva assumendo il sequestro di persona ad opera del cosiddetto banditismo sardo. La Commissione rilevò una prima, forte manifestazione del banditismo che si era prodotta tra gli anni 1946-1955. Dopodiché dal 1955 al 1965 seguì un decennio di relativa tranquillità rotta improvvisamente da una impressionante ondata di violenza.

Il 1966 segna una netta inversione di tendenza: 81 omicidi o tentati omicidi, 67 rapine effettuate, 19 rapine tentate, 55 estorsioni, 11 sequestri di persona. Gli anni successivi vedranno ancora tutti gli indici delittuosi in aumento. In un quadro così allarmante la Commissione analizzò il significato del sequestro di persona. Scrisse il presidente Medici nella sua relazione: "Il sequestro di persona non è nuovo nella storia della Sardegna. Il primo di cui si ha notizia avvenne nel 1477 nella Baronia di Posada, ma si ha ragione di ritenere che, con alterne vicende, esso sia stato sempre praticato, specialmente nelle zone pastorali. Anche il sequestro di donne, di bambini e di persone estranee al mondo rurale non è del tutto nuovo: nel 1894, a Gavoi furono sequestrati due commercianti francesi: nel gennaio 1925 fu sequestrata ed uccisa una bambina di dieci anni, residente ad Aidomaggiore; nel luglio 1933 fu sequestrata ed uccisa la figlia di sei anni del podestà di Bono". Se quel fenomeno poteva contare su una antica discendenza storica, "è soltanto nell'ultimo ventennio che il sequestro di persona è diventato il reato dominante e caratteristico della criminalità isolana, tanto da rendere fondata l'ipotesi che esso sia sostitutivo dell'abigeato, della rapina e anche dell'estorsione semplice, reati che le nuove condizioni di vita sociale e i più efficaci mezzi di controllo e di prevenzione hanno reso meno produttivi e di più difficile esecuzione" ( MEDlCl, Relazione, cit., p. 29.)

I passi appena ricordati della Relazione Medici coglievano i due aspetti essenziali del fenomeno: la lunga durata storica e gli elementi di novità che era possibili intravedere in quell'ultimo ventennio. Il sequestro di persona, nell'analisi dei documenti allegati alla relazione sulla criminalità in Sardegna, era individuato come "la variante "moderna" dell'antica criminalità rurale sarda". In particolare venne notato come "le serie temporali dei furti di bestiame e dei sequestri di persona mostrano che ad una flessione della frequenza dell'abigeato corrisponde una tendenza all'incremento del sequestro di persona". L'andamento del fenomeno stava ad indicare l'evoluzione e l'adattamento di alcuni tipici reati isolani: da un lato il sequestro rappresenta il reato "maggiormente più remunerativo" e quello che ha "le maggiori probabilità di rimanere impunito", e dall'altro lato esso "normalmente si presenta come un perfezionamento dell'estorsione"

( PUGGIONI e RUDAS, cit., p. 144 e p. 181; PANICO e OLIVA, cit., pp. 349-350).

L'aumento dei sequestri e la diminuzione dell'abigeato si spiegavano anche con la relativa facilità con cui era possibile sequestrare un uomo e tenerlo segregato per un periodo più o meno lungo senza particolari probabilità di essere scoperti. Questo mutamento era efficacemente sintetizzato in un antico detto sardo che testualmente recita così: "gli uomini, al contrario delle pecore, non belano". Nascondere un uomo ed impedirgli di parlare era enormemente più facile che nascondere un gregge di pecore; soprattutto era impossibile impedire che una pecora belasse. Una simile interpretazione ha avuto una lunga durata nel tempo. Essa è stata riproposta dall'awocato Gianfranco Cualbu, presidente dell'Ordine forense di Nuoro, il quale ha dichiarato di fronte al Comitato per i sequestri: "un certo numero di proprietari sono diventati tali - sto parlando di settanta o cento anni fa- perché assoldavano dei poveracci che mandavano a rubare il bestiame: davano due lire al poveraccio e facevano propri i proventi del bestiame. Non è cambiato niente, anziché il bue, si prede l'uomo; si dice: l'uomo non bela, un gregge di tre cento pecore invece fa rumore, è più facile sequestrare un uomo e portarlo via". Anche nelle parole del procuratore della Repubblica di Nuoro, dottor Ignazio Chessa, è risuonato quell'antico detto sardo: "si rubava il bestiame e adesso si ruba l'uomo, che è più facile da gestire perché non bela a differenza della pecora". Il sequestro segnalava la tendenza alla più rapida monetizzazione dei reati sardi, I'evoluzione verso la ricerca di attività delinquenziali più immediatamente remunerative. Dal punto di vista del ricavo era più conveniente sequestrare il proprietario del gregge che non il gregge stesso. La criminalità sarda comprese che dal proprietario era possibile ottenere un riscatto maggiore di quanto non fosse possibile con la restituzione degli animali rubati. Il passaggio dall'abigeato al sequestro, o la sostituzione del primo con il secondo, sembrava rendere equivalenti i due reati: il furto di bestiame e il sequestro - o furto - di persona. La letteratura specializzata si interrogò su tale questione e individuò la presenza, nel gruppo pastorale barbaricino responsabile di un notevole numero di sequestri, di una "indistinzione etica" tra abigeato e sequestro di persona; secondo quel particolare modo di ragionare non c'era una distinzione dal punto di vista etico tra rubare animali e tenere segregata una persona. Al fondo di tali comportamenti c'era l'antica permanenza di una cultura peculiare dell'isola, la cultura barbaricina, che funzionava come un supporto ideologico a tutta una serie di azioni che - giustificate o spiegate nel quadro di una mentalità che si tramandava da generazione in generazione e che era assurta alla dignità di un autonomo e alternativo corpus giuridico- confligevano con le norme e la legislazione dello Stato Italiano

(Sulla complessità della cultura barbaricina e sul peso avuto in Sardegna è uti le A. PIGLIARU, La vendetta barbaricina come ordinarnento giuridico, Milano 1959).

Ed era in questo conflitto tra norme giuridiche della cultura barbaricina e leggi dello Stato che si inserivano la presenza e il ruolo di particolari figure di latitanti le cui azioni, lungi dall'essere considerate come criminali o antisociali, erano intese, in determinati strati della popolazione, con favore e con simpatia. Personaggi come Pasquale Tandeddu o Graziano Mesina godettero, per un determinato periodo, di una enorme popolarità, erano circondati da un vasto consenso e da un alone di simpatia popolare. Con una straordinaria capacità di amplificazione e di proiezione sul passato, molti latitanti sardi riuscirono ad incarnare forme di ribellismo e di antagonismo nei confronti di tutte le autorità statali che avevano, nelle diverse epoche storiche, governato l'isola dell'esterno; riuscirono, con diversa fortuna ed abilità, ad apparire come vendicatori delle ingiustizie di coloro che ritenevano traditori prezzolati dalla polizia, dei padroni considerati avidi e usurai; si presentarono come un simbolo di un altro mondo, di un'altra comunità diversa da quella ufficiale, dove l'uomo era in grado di difendersi da solo - la cosiddetta balentìa. Il latitante, o il criminale in genere, se era considerato bandito della società ufficiale tale non era per noi pastori della comunità barbaricina

Su questi aspetti cfr. PIGLIARU, cit., e i volumi di E. J. HOBSBAWN, I ribelli, Torino 1966 e I banditi, Torino 1971.

Questo spiega perché "il bandito di Orgosolo è considerato diversamente (e) la società lo riconosce come suo: ogni pastore sa che si potrà trovare nella situazione in cui dovrà diventare bandito, ogni bandito sa di non essere altro se non un pastore sfortunato"

(F. CAGNETTA, Banditi ad Orgosolo, Rimini-Firenze 1975, p. 289. )

Secondo questa interpretazione pastore e bandito - e di conseguenza latitante - erano figure potenzialmente equivalenti, che si sovrapponevano l'una all'altra. Si potrebbe arrivare a dire che il pastore svolgeva un lavoro che lo avrebbe portato, prima o poi - per le traversie della vita e per i capricci della giustizia - a diventare bandito. L'identificazione tra pastore, bandito e latitante portava con sé un'ulteriore conseguenza che via via si è affermata con il passare del tempo: una "inconscia ammirazione per chi perpetua questi delitti e si arricchisce, nella giustificazione che tutto sommato si no s'imhruttata - e cioè se non vi è sangue o morte - togliere ai più ì ricchi non è ingiusto"

(G. MELIS BASSU, Sequestro di persona, Sociatà Sarda, n. 7, 1998.)

La cultura barbaricina affondava le proprie radici nel mondo pastorale sardo, in zone interne della Sardegna che non erano state toccate dallo sviluppo economico legato all'industrializzazione o al turismo che pure aveva interessato altre aree dell'isola. Il mito del latitante sembrava richiamare una realtà arretrata, fatta di miseria e di abbandono. Come tutti i miti, anche quello del latitante sardo poggiava su incontrovertibili dati della realtà, ma nel contempo funzionava come una sorta di cortina fumogena rispetto ad una situazione ben più complessa e sfaccettata che la mitologia corrente contribuiva ad occultare e a mistificare. I documenti allegati alla Relazione sulla criminalità in Sardegna rilevavano che "le figure più note del banditismo sardo: Pes, Mesina, Succu, Mele, Campana, Casula Antonio, Cherchi Nino, provengono da famiglie pastorali che non vivono nella povertà; alcune, anzi, godono di una buona posizione economica". Soprattutto era convinzione che "il banditismo in Sardegna non è genericamente rurale né tanto meno contadino, ma ha avuto ed ha una prevalente caratterizzazione pastorale (questo elemento, fra gli altri, conferma essere priva di fondamento la ipotesi del banditismo basato sulla miseria. Il bandito non è un povero, un misero, ma una precisa figura sociale del mondo pastorale). Bandito e pastore appartengono allo stesso 'sistema', allo stesso mondo socio-economico e culturale"

(PANICO e OLIVA, cit., p. 363; PUGGIONI e RUDAS, cit., p. 246.)

Tale analisi aveva il pregio di intaccare un antico luogo comune che metteva in relazione povertà e banditismo facendo derivare dalla povertà, come conseguenza diretta e ineluttabile, il banditismo e la delinquenza. La letteratura coeva alla Relazione Medici confermava i mutamenti che si stavano introducendo proprio in quegli anni: "Nell'ideologia del sequestro di persona finisce la filosofia de s'apprettu, del bisogno, che è la originaria filosofia barbaricina. O, per lo meno, al vecchio apprettu, che era quello della sopravvivenza, si sostituisce una nuova brama, forte come l'antico apprettu, che è il desiderio sfrenato del denaro: una filosofia imposta dal di fuori... la civiltà dei consumi che viene dalla città"

(M. BRIGAGLIA, Sardegna. Perchè banditi, Milano 1971, P. 319.)

Il bisogno - figlio della fame e della disperazione - lasciava il posto ad una forma più modema di accumulazione del denaro, prodotto di una cultura industriale i cui valori stavano soppiantando gli antichi miti della cultura contadina e pastorale sarda. Gli anni del boom economico avrebbero portato ad ulteriori conseguenze questi mutamenti. Una sorta di giustificazionismo storico e sociologico aveva contribuito ad alimentare - e a giustificare - il mito del bandito e del latitante come figura eroica e romantica. La realtà, invece, appariva più complessa e più ricca di sfaccettature e contribuiva a delineare in maniera più precisa e più netta le caratteristiche del sequestro di persona in Sardegna. C'erano sicuramente - ed erano molto numerosi - i sequestri il cui scopo principale era quello di ottenere denaro in modo più facile e soprattutto in maggiore quantità e con una velocità enormemente superiore rispetto ai reati classici del passato come l'abigeato e l'estorsione che era praticata attraverso lo strumento della lettera minatoria, forma quanto mai diffusa, e scarsamente presa in considerazione in quegli anni. Ma, come si vedrà più avanti, una molteplicità di fattori - non riconducibili ad una sola causa - concorrevano a delineare il sequestro di persona sardo. Secondo la relazione Medici esso è compiuto non da una organizzazione permanente dal momento che, riscosso il riscatto, la banda si scioglieva. Altri due aspetti caratterizzavano il fenomeno sardo in quegli anni: da un lato il fatto che i componenti della banda "sono spesso legati tra loro da rapporti di parentela - affinità - comparatico, o da precedenti comuni fatti criminosi. Appartengono cioè quasi tutto ad un ristretto "clan" familiare o tribale"

(Ibidem, cit., p. 363.)

Dall'altro lato il fatto che i proventi, grandi o piccoli che fossero, furono immobilizzati nell'isola e non furono investiti in altri circuiti criminali come il traffico di stupefacenti o delle armi. La crescita del numero dei sequestri era favorita dalla natura e dalle asperità del terreno nelle zone del Supramonte dove, in grotte naturali o in località difficilmente accessibili per chi non sia nato in quei luoghi o li abbia frequentati per lungo tempo, è stato possibile custodire i sequestrati in ovili sperduti e disseminati in un vasto territorio. Custodi degli ostaggi sono stati molto spesso latitanti o pastori aiutati, consapevolmente o meno, da una mentalità e da un costume che difficilmente portavano a denunciare alle autorità e agli inquirenti movimenti sospetti o altre notizie utili alle indagini. In Sardegna, considerando il solo periodo repubblicano, i casi di sequestri di persona hanno inizio a partire dai primi anni cinquanta. Alla fine del 1968 si era già raggiunta la ragguardevole cifra di 70 persone sequestrate. Quando fu compilata la Relazione sulla criminalità in Sardegna venne riportata una tabella che, nelle intenzioni degli scriventi, doveva servire a mostrare la drammaticità della situazione esistente nell'isola a confronto di quella delle altre regioni italiane. Dalla data 1 gennaio 1968 al 31 agosto 1971 risultavano consumati in Italia 37 sequestri così ripartiti:

Sardegna 21

Calabria 10

Sicilia 4

Lazio 1

Liguria 1

I decenni successivi si incaricheranno di sconvolgere quella graduatoria fra le regioni e di incrementare il numero dei sequestri riconducibi li ad una matrice sarda. Dal 1° gennaio 1969 all'ultimo rilevamento del 18 febbraio 1998 in Sardegna si calcolarono 107 casi di sequestro che vanno aggiunti ai 70 registrati fino alla fine del 1968. In quello stesso periodo- 1969-1998- la Sardegna perderà il suo "primato" regionale collocandosi dietro la Lombardia dove si registrarono 158 casi e la Calabria dove i sequestri raggiunsero la cifra di 128. In Sardegna - soprattutto in certe aree - si è vissuto a lungo con la cultura del sequestro e con il pericolo per alcuni ceti sociali di poter essere vittime, prima o poi, di un sequestro. Ciò determinava un particolare clima psicologico; costringeva a convivere con la cultura del sequestro, con l'idea che il sequestro fosse un elemento di quella società, un dato ineludibile e ineluttabile. Giuseppe Vinci ha riassunto tale clima nella sua audizione a Nuoro del 4 marzo 1998 descrivendo la sua vicenda personale in questi termini:

"Noi abbiamo vissuto per venti anni quest'incubo del sequestro di persona. Quando io avevo 14 anni vi era stata una soffiata per cui sembrava che avessero organizzato in quel periodo un sequestro che poi per un qualche motivo non era riuscito. Abbiamo quindi vissuto la cultura del sequestro fin da piccoli; ad un certo punto il sequestro si è verificato e noi continuiamo a viverlo anche dopo".

Anche Ferruccio Checchi, un imprenditore che aveva deciso di investire in Sardegna, ha raccontato la sua esperienza:

"Che si potessero verificare altri sequestri dopo quelli di Vinci, Sircana e della signora Licheri a me era stato enunciato direttamente dal maresciallo dei carabinieri di Dorgali, il quale mi aveva chiesto se c'era qualche mio familiare in zona perché stavano facendo un elenco di persone che avrebbero potuto essere vittime di eventuali sequestri. Gli risposi che c'era mia figlia in zona. Presero Vanna Licheri il 14 maggio; dopo quattro giorni sono stato sequestrato io, il 19 maggio".

La criminalità sarda - o anonima sarda come venne definita dalla stampa dell'epoca - si è resa responsabile di sequestri effettuati in altre regioni come la Lombardia, l'Emilia-Romagna e soprattutto il Lazio e la Toscana dove nel tempo si erano installate colonie di emigrati sardi. Come sempre avviene in tutti i fenomeni migratori, accanto alla stragrande maggioranza di lavoratori onesti, c'è una quota, più o meno consistente, di persone che commettono reati nei nuovi luoghi di residenza. Secondo il documento consegnato dal dottor Fleury, su 26 sequestri avvenuti in Toscana dal 1975 al 1990 ben 20 sono riconducibili ad una matrice criminale sarda dal momento che in 15 sequestri sono stati condannati con sentenza definitiva soggetti di origine sarda; in 2 sequestri sono stati condannati con sentenza definitiva individui legati all'ambiente dei pastori sardi; in 3 sequestri sono stati inquisiti elementi sardi senza però che gli stessi siano stati raggiunti da prove tali da portare ad una condanna.