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elazione sui sequestri di persona a scopo di estorsione
(Relatore: senatore Pardini)
PARTE SECONDA

mafia e 'ndrangheta

Oltre alla criminalità di origine sarda, furono attive anche la mafia siciliana e quella calabrese. Cosa nostra agì in modo del tutto diverso rispetto a tutte le altre organizzazioni di sequestratori. La criminalità sarda operò in Sardegna e fuori di essa, la 'ndrangheta in Calabria e in Nord Italia, "Cosa nostra" si mosse dapprima in Sicilia e, dopo alcuni sequestri fatti nell'isola, spostò successivamente il suo campo d'azione nel Lazio e in modo particolare in Lombardia. Tommaso Buscetta, mafioso palermitano diventato collaboratore di giustizia, spiegò questa particolarità attribuendola ad una precisa decisione della commissione di "Cosa nostra" la quale, per un calcolo di convenienza, proibì ai suoi affiliati di effettuare sequestri in Sicilia.
Quella decisione non era dettata da una posizione di principio, né tanto meno dalla volontà della mafia siciliana di non macchiarsi di un reato considerato infamante per un uomo d'onore.
I mafiosi siciliani, infatti, erano liberi di sequestrare al di fuori della Sicilia. Il divieto era valido solo per la Sicilia perché i capi di "Cosa nostra" erano preoccupati che i sequestri potessero contribuire a diminuire il consenso dei siciliani nei confronti della mafia e, nel contempo, temevano che l'inevitabile clamore attorno ai sequestrati potesse attirare l'attenzione delle forze dell'ordine la cui massiccia presenza rischiava di intralciare altre attività ben più lucrose come il traffico di armi e di stupefacenti. I Corleonesi, a partire dai primi anni settanta, cominciarono a gestire una serie di sequestri di persona.

In Sicilia, prima della decisione della commissione, venne sequestrato il 16 agosto 1972 a Palermo Luciano Cassina e venne rilasciato il 7 febbraio 1973 dopo il pagamento di 1 miliardo e 300 milioni.
Già a metà del 1974, però, l'allora procuratore della Repubblica di Palermo dottor Giovanni Pizzillo poteva scrivere alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia che dopo i 3 sequestri degli anni 1971-1972 nessun caso si era più verificato in quella provincia.
Si tratta di un appunto scritto in seguito ad un incontro avvenuto a Palermo il 20 1974 con un Comitato della Commissione antimafia presieduto dall'onorevole Sgarlata. Il documento è in Camera dei deputati, IX leg., Documentazione allegata al la relazione conclusiva della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno del la mafia in Sicilia, Doc. XXIII, n. I-V, p.53.
Agli inizi degli anni settanta i Corleonesi spostarono la loro attività in Lombardia.
Il 18 dicembre 1972 a Vigevano veniva rapito Pietro Torielli junior che verrà rilasciato ad Opera dopo il pagamento di un riscatto di 1 miliardo e 500 milioni.
Di questo sequestro - di quello di Luigi Rossi di Montelera, sequestrato a Torino il 14 novembre 1973 e liberato dalle forze di polizia che lo trovarono il 14 marzo 1974 in una cella nel territorio del comune di Treviglio, e di quello di Emilio Baroni, rapito a San Donato Milanese il 10 marzo 1974 e rilasciato dopo 12 giorni dietro pagamento di 850 milioni - vennero accusati 31 soggetti quasi tutti di origine siciliana.
Tra gli imputati - condannati per i primi due sequestri dal Tribunale di Milano e dalla Corte di appello di Milano con sentenza poi passata in giudicato - figuravano mafiosi siciliani del calibro di Nello Pernice, Michele Guzzardi, don Agostino Coppola e Luciano Leggio, meglio noto come Luciano Liggio, definito dalla Corte di appello di Milano come "figura dell'organizzatore e del capo" la cui lunga latitanza nel capoluogo lombardo era da ascrivere non solo all'aiuto degli affiliati mafiosi, ma a quello dei " favoreggiatori soprattutto in seno all'amministrazione dello Stato".
Sulle viccnde relativc a questi sequestri si vcdano Tribunale di Milano (pre sidente A. Salvini), Sentenza nclla causa penale contro Guzzardi Michele + 30, 1976 c Corte di appcllo di Milano (prcsidcnte D. Casson e G. Arcai estensore), Sentenza contro Guzzardi Michele + 31, 1979.
Il sequestro Torielli è il primo caso verificatosi in Lombardia; da quel momento iniziava la stagione dei sequestri di persona in quella regione che si prolungherà fino ai nostri giorni come dimostra il sequestro della signora Alessandra Sgarella.
In molte occasioni i mafiosi siciliani operarono insieme ai mafiosi calabresi e anche ai criminali di origine marsigliese.I mafiosi siciliani non continuarono a lungo su questo settore criminale e ben presto lo abbandonarono. Accumulato un certo capitale, lo investirono nell'acquisto di droga.
Il traffico di stupefacenti consente di realizzare un guadagno enormemente superiore a quello di qualsiasi altra attività economica illegale e soprattutto consente di realizzare quell'introito con una velocità nettamente superiore a quello di un sequestro che può protrarsi per un tempo indeterminato, certamente non programmabile al momento della cattura dell'ostaggio. Questioni di quantità di denaro e di tempi di realizzazione dell'affare hanno avuto si curamente un peso nella decisione di non proseguire lungo quella strada. Ma, a quanto pare, agli inizi degli anni novanta "Cosa nostra" stava per riprendere i sequestri di persona. La Procura della Repubblica di Palermo, nella richiesta di custodia cautelare a carico di Biondo Mario più altri 6 imputati, tra cui Raccuglia Nunzio, avanza l'ipotesi che quest'ultimo avesse realizzato un bunker sotterraneo nella sua masseria "destinato a divenire la cella ove, secondo un piano efferato ideato personalmente da Totò Riina allo scopo di rimpinguare le casse di Cosa nostra, dovevano nascondersi facoltose persone da sequestrare a fini estorsivi>.
Il primo progettato sequestro doveva essere nei confronti dell'esattore Giuseppe Cambia. Ciò sarebbe avvenuto nel settembre del 1992 e il sequestro non sarebbe stato eseguito per l'arresto di Riina.
Tribunale di Palermo (Gip A. Montalto), Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Biondo Mario + 6, 1988, pp.17-18.
E probabile anche che nella scarsa presenza dei siciliani nel campo dei sequestri abbia influito la scelta della commissione di "Cosa nostra" con la conseguente impossibilità di utilizzare la Sicilia come luogo di custodia degli ostaggi, cosa che invece fece ampiamente la 'ndrangheta, che inviò in Calabria sequestrati che erano stati catturati nelle regioni del Nord. Ai mafiosi siciliani mancò quel retroterra che invece i mafiosi calabresi utilizzarono fino agli inizi degli anni novanta, come hanno dimostrato i casi di Cesare Casella, sequestrato a Pavia il 18 gennaio 1988 e liberato il 30 gennaio 1990, quello di Carlo Celadon, rapito ad Arcignano in provincia di Vicenza il 25 gennaio 1988 e liberato il 5 maggio 1990, e quello di Roberta Ghidini, sequestrata a Lonato in provincia di Brescia il 15 novembre 1991 e liberata il 14 dicembre 1991; tutti e tre riacquistarono la libertà in provincia di Reggio Calabria.

In Calabria i sequestri di persona a scopo di estorsione ebbero inizio già a partire dal 1945, anche se soltanto il 2 luglio 1963, con il sequestro dell'imprenditore reggino Ercole Versace, si può parlare di una ripresa di un certo rilievo dei sequestri di persona. L'avvio di una nuova fase, caratterizzata da una enorme espansione che interessò la Calabria e le regioni del Centro e del Nord Italia, si ebbe il 26 agosto 1970 con la cattura a Villa San Giovanni del medico chirurgo Renato Caminiti rilasciato dopo appena due giorni. Autori dei sequestri di persona furono i mafiosi della 'ndrangheta. Fu tale il numero dei sequestri e l'alta professionalità mostrata nella gestione e nelle dinamiche delle diverse fasi del sequestro che si attribuì alle cosche calabresi una vera e propria specializzazione nel settore. Il dottor Carlo Macrì, negli anni ottanta sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri, nella audizione a Reggio Calabria del 7 aprile 1998 ha descritto le modalità operative della 'ndrangheta. Esse sono simili a quelle di una vera e propria industria. E ciò sia per i profitti realizzati, sia per le dinamiche dei sequestri che coinvolge vano numerosissime persone con compiti estremamente ridotti che garantivano il massimo di sicurezza per l'organizzazione, e sia infine per le "capacità veramente eccezionali di programmazione e di divisione del lavoro quando i sequestri erano attuati al Nord e le vittime erano portate al Sud".
In questi casi l'industria era talmente efficiente che i sequestri "sono stati portati a termine con una capacità ed un'organizzazione perfetta, senza alcuna smagliatura>.
Continuava a destare enorme impressione il fatto che persone sequestrate al Nord potessero impunemente attraversare l'intera penisola per essere custodite sulle montagne dell'Aspromonte in luoghi impenetrabili, in rifugi naturali come grotte o costoni, o in buche appositamente scavate nel terreno. Diversamente da "Cosa nostra" la 'ndrangheta risolse il problema del consenso realizzando una particolare economia legata alla gestione materiale dei sequestri. Vennero utilizzati i latitanti per la custodia degli ostaggi e nel contempo si impiegò anche gente del luogo, soprattutto giovani affiliati; una quota dei proventi del riscatto entrava nel circuito economico di alcuni paesi aspromontani, soprattutto con la costruzione di case, e contribuiva a favorire l'aspettativa economica di quelle contrade.

In quelle realtà la 'ndrangheta riuscì a far apparire il sequestro come un affare i cui vantaggi ricadevano non solo sui mafiosi, ma anche su una popolazione più vasta. C'era anche una particolare tendenza - simile a quella sarda - di considerare il sequestro come una più equa ripartizione della ricchezza essendo i sequestrati delle persone facoltose i cui beni si presume che non siano stati acquisiti solo con i proventi del lavoro. Non tutti i capi della 'ndrangheta erano d'accordo a proseguire nel campo dei sequestri di persona. Ci furono discussioni tra loro e si manifestarono aperti contrasti che videro protagonisti alcuni degli esponenti più prestigiosi della 'ndrangheta storica i quali non accettavano l'idea che potessero essere tenuti in ostaggio donne e bambini perché ciò poteva portare disonore e un danno di immagine per la 'ndrangheta. I sequestri, nonostante contrasti e opposizioni, proseguirono anche perché nella 'ndrangheta non esisteva a quel tempo una struttura di comando simile alla commissione di "Cosa nostra" mancava un'autorità centrale in grado di governare le 'ndrine, di assumere decisioni e di farle rispettare da tutti. E dunque, ogni 'ndrina decise per proprio conto se continuare o meno a fare sequestri. Con i proventi dei sequestri la 'ndrangheta ha accumulato un notevole capitale che è stato impiegato per finanziare altre attività criminali. Una parte di esso venne investito nell'edilizia. A Bovalino, paese della ionica reggina, c'è un quartiere che gli abitanti chiamano Paul Getti, dal nome del famoso ragazzo sequestrato a Roma il 9 luglio 1973 e rilasciato il 15 dicembre dello stesso anno dopo il pagamento di un riscatto di 1 miliardo e 700 milioni, una cifra enorme per l'epoca, la più alta di quel decennio.
Con i proventi dei sequestri furono comprati camion, autocarri, pale meccaniche e si diede vita alla formazione di ditte mafiose nel campo dell'edilizia le quali parteciparono alle gare per gli appalti pubblici, a cominciare da quelli per la costruzione, mai realizzata, del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro. Un'altra parte di quel denaro, probabilmente la quota più rilevante, fu investita dapprima nel contrabbando delle sigarette estere e successivamente nell'acquisto di droga. La 'ndrangheta si inserì in quello che era il più grande business mafioso. Il ciclo dei sequestri di persona schiudeva il ciclo del traffico degli stupefacenti. Molte cosche, prima di avviarsi sulla via del grosso traffico internazionale di narcotici, aveva portato a termine proficuamente alcuni sequestri. Verso la metà degli anni settanta la 'ndrangheta si proiettò al Centro e al Nord Italia rendendosi responsabile di numerosi sequestri. I sequestri al Nord contribuirono a svelare il radicamento in quelle realtà, dovuto essenzialmente al fatto che i mafiosi calabresi riuscirono a realizzare delle vere e proprie enclaves inviando al Nord pezzi delle cosche che vi si impiantarono stabilmente. Quella della 'ndrangheta fu una scelta consapevole che consentì di realizzare nel cuore del triangolo industriale e in pieno boom economico un vero e proprio controllo del territorio, un dominio mafioso di piazze, vie, porzioni di paesi e di quartieri in città come Torino e come Milano o in comuni della cintura torinese e milanese; controllo durato fino ai primi anni novanta, quando una mirata attività delle Direzioni distrettuali antimafia milanesi e torinesi ha scompaginato le cosche.
Migliaia di mafiosi calabresi furono portati in processo e condannati. Col passare del tempo molte cosche si impegnarono nel traffico di stupefacenti, abbandonando il campo dei sequestri che via via si concentrò, al Nord come in Calabria, nelle mani di poche 'ndrine. Saverio Morabito, mafioso originario di Platì diventato collaboratore di giustizia, raccontò al pubblico ministero di Milano Alberto Nobili che in Lombardia i sequestri erano gestiti da un gruppo criminale centrale che aveva l'autorità necessaria per proporre e distribuire la gestione delle fasi successive ad altri gruppi. Morabito ricostruì le vicende di alcuni sequestri - ad alcuni dei quali aveva personalmente partecipato - commessi tra il 1975 e il 1980, quelli di Giuseppe Ferrarini, di Carlo Alberghini, di Giuseppe Scalari, di Angelo Galli, di Alberto Campari, di Augusto Rancilio, di Evelina Cattaneo, di Angelo Jacorossi, di Alessandro Vismara.
Il racconto di Morabito si trova in tribunale di Milano (G. Piffer), Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Agil Fuat + 164, 1993, pp. 205-250.
Anche Antonio Zagari, altro mafioso originario di Rosamo poi divenuto collaboratore di giustizia, raccontò al pubblico ministero di Milano Armando Spataro di alcuni sequestri consumati dalla 'ndrangheta in Lombardia che si conclusero con la morte degli ostaggi: Emanuele Riboli, rapito a Baguggiate in provincia di Varese il 14 ottobre 1974, Cristina Mazzotti, sequestrata ad Eupilio in provincia di Como il 10 luglio 1975 e ritrovata cadavere due mesi dopo in una discarica di Galliate in provincia di Novara, Giovanni Stucchi, rapito ad Olginate in provincia di Como il 15 ottobre 1975. Prima di iniziare la sua collaborazione, Zagari aveva informato i carabinieri del tentativo di sequestro di Antonella Dellea avvenuto in Germignaga in provincia di Varese il 16 gennaio 1990. Quel giorno in un conflitto a fuoco con i carabinieri rimasero uccisi tre uomini originari di San Luca e uno di Careri.
Il racconto di Zagari è in tribunale di Milano (G. Grigio), Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Zagari Antonio + 155, 1994, pp. 286-329.
Nell'audizione di Milano il dottor Manlio Minale, procuratore aggiunto della Repubblica delegato per la DDA, e il dottor Alberto Nobili, sostituto procuratore della Repubblica presso la DDA, hanno fatto notare come a Milano e in Lombardia i sequestratori provengano sempre dalle stesse zone della Calabria e come tutti i sequestri siano stati gestiti dagli stessi gruppi mafiosi della 'ndrangheta. Le cosche erano quasi sempre le stesse e gestivano in forma monopolistica quasi tutti i sequestri. In Calabria i responsabili dei sequestri di persona si andarono concentrando in poche mani e furono individuati negli appartenenti alle 'ndrine di Platì, San Luca e Natile di Careri che continuarono a gestire con particolare professionalità i sequestri fino a tutto il 1991. Un'unica centrale decideva tutti i sequestri di quegli anni. Fu la stessa centrale che ad un certo punto decise di porre fine a quella antica pratica criminale. Il dottor Roberto Pennisi, sostituto procuratore della Repubblica della DDA di Reggio Calabria, nella seduta del 2 dicembre 1993 avanzò questa ipotesi al gruppo di lavoro sui sequestri di persona in Calabria coordinato dal senatore Butini nella XI legislatura. Lo stesso magistrato, nella audizione svoltasi a Reggio Calabria il 7 aprile 1998, ha dato una sua interpretazione circa le ragioni che spinsero la 'ndrangheta a chiudere con i sequestri di persona nel 1991. Secondo quel magistrato la decisione fu dettata dal fatto che in quell'anno "la 'ndrangheta assunse il monopolio internazionale del traffico dei narcotici, in particolare della cocaina. Attualmente non c'è un grammo di cocaina circolante in tutto il mondo che non passi attraverso le mani dell'organizzazione criminale calabrese e delle sue succursali del Nord e del Sud America, dell'Australia e dei vari Stati europei, in particolare la Spagna.
Dobbiamo infatti considerare che la rendita ottenuta dal traffico di cocaina operato nell'arco di un mese è notevolmente superiore a quella ottenuta dai sequestri di persona; oltretutto, le operazioni avvengono in silenzio, senza impegnare contemporaneamente molte persone e, soprattutto, in un momento in cui non c'è bisogno di clamore". Anche dal punto di vista giudiziario fu accertata l'esistenza di una "unica direzione strategica" delle cosche fra loro federate che avevano il potere di decisione e di scelta nel campo dei sequestri. Secondo la sentenza del Tribunale di Locri, questa tendenza era presente sin dagli inizi del 1979. La particolarità di queste cosche era così descritta: "si è verificato che i medesimi soggetti e gruppi criminali che storicamente gestivano, in forma quasi di monopolio, il "primordiale" settore dei sequestri di persona, figurassero tra i protagonisti del più moderno scenario dei delitti riconducibili al traffico di droga che venivano realizzati con la stessa professionalità ed efficienza che avevano caratterizzato la originaria attività criminale"
Tribunale di Locri (presidente S. Grasso), Sentenza nei confronti di Barbaro Francesco + 49, 1995.
Nell'anno in cui si approva la legge sul blocco dei beni la 'ndrangheta chiude con i sequestri. E possibile che vi sia una qualche relazione tra i due fatti e non solo una coincidenza temporale. E probabile che la decisione di non fare più sequestri sia stata assunta anche in conseguenza della pace siglata a Reggio Calabria proprio in quell'anno. La pace aveva posto fine ad una sanguinosissima guerra che, iniziata nel 1985, era durata talmente a lungo da compromettere affari economici di una certa rilevanza. La pace ebbe come diretta conseguenza quella di formare una sorta di organismo di vertice tra le cosche di tutta la 'ndrangheta intenzionate, da quel momento in poi, a governare le attività mafiose nel massimo di tranquillità e di riservatezza possibile. Con il nuovo corso si decise addirittura di porre fine a faide sanguinose che si trascinavano da decenni. Ricorrere al sequestro di persona, con l'inevitabile clamore e con il concentrarsi delle forze dell'ordine nella Locride e nell'Aspromonte, non rientrava nei progetti del nuovo organismo di comando. Eppure i sequestri di persona in Calabria ebbero effettivamente termine soltanto nel 1993. Tra il 1992 e il 1993 ci furono altri sei sequestri di persona. Due particolarità caratterizzarono questi episodi: non vennero sequestrate persone facoltose e gli autori non erano uomini della 'ndrangheta. Secondo l'opinione del dottor Pennisi, espressa al Comitato per i sequestri, questa anomalia si poteva spiegare con il fatto che "si era formata la convinzione in capo a determinati soggetti criminali operanti nell'Aspromonte, giovani sbandati e non, comunque legati a questo tipo di reato, che se la famiglia non pagava avrebbe potuto comunque pagare qualcun altro". Era con vinzione - diffusa ampiamente nella stampa locale e nazionale dell'epoca - che settori dello Stato avessero, per alcuni sequestri, pagato i riscatti ai sequestratori. Sulla base di questa convinzione i sequestri ebbero in Calabria un prolungamento fino al 1993. Il Comitato ha ascoltato a Reggio Calabria, nella seduta del 7 apri le 1998, il racconto dell'esperienza dei familiari delle vittime che non hanno più fatto ritorno a casa: Giovanna Ielasi Medici, moglie di Vincenzo Medici sequestrato nel 1989; Audinia Marcellini Conocchiella, moglie di Giancarlo Conocchiella, sequestrato nel 1991; Domenica Brancatisano Cartisano e Giuseppe Cartisano, moglie e figlio di Adolfo Cartisano, sequestrato nel 1993.
E ragionevole ipotizzare che i sequestri si sono conclusi proprio perché questa convinzione si rivelò errata, dal momento che in quegli anni nessuno, al di fuori dei familiari dei rapiti, pagò i riscatti richiesti dai rapitori. Ciò non esclude quanto affermato dal dottor Vincenzo Macrì, magistrato della DNA, nella sua audizione del 23 febbraio 1998: "Non credo che sia un reato abbandonato per motivi di principio; è stato abbandonato per motivl di convenienza e se le condizioni tornano ad essere favorevoli per riproporre questo tipo di reato, non ci sono ostacoli di principio perché venga ripetuto.

E un reato di forte impatto che può essere utilizzato anche per lanciare dei messaggi; non solo, ma in passato (questo ormai è provato), durante il sequestro di persona venivano in qualche modo ad operarsi dei collegamenti anomali tra istituzioni e sequestratori, cioè si aprivano dei canali di collegamento, necessariamente per trattative, per informazioni, per pagamenti, per cose di questo genere. Attraverso questi canali passavano probabilmente anche altre cose. Ora, io ho l'impressione che quel periodo è finito, per fortuna, ma che forse da parte della 'ndrangheta potrebbe esserci una specie di rinnovato interesse ad aprire questi canali di comunicazione anche per lanciare messaggi o per altri motivi".