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relazione sui sequestri di persona a scopo di estorsione
(Relatore: senatore Pardini)
PARTE SECONDA

 

altre motivazioni del sequestro di persona

La motivazione fondamentale che stava alla base di tantissimi sequestri - sicuramente la grande maggioranza - era la volontà di accumulare denaro in grande quantità e in tempi più rapidi rispetto alle tradizionali attività criminali; per questo si aggiunge che lo scopo del sequestro è l'estorsione. La motivazione economica, tuttavia, non copriva l'intera gamma delle ragioni che inducevano i sequestratori a tenere segregata una persona.
C'erano anche altri obiettivi - non dichiarati esplicitamente - che si intendeva realizzare. Nella storia dei sequestri sardi, siciliani e calabresi è possibile cogliere alcuni aspetti che completano il quadro delle motivazioni criminali. Secondo quanto si trova scritto nei documenti allegati alla Relazione sulla criminalità in Sardegna, "qualche sequestro può essere attribuito a vendetta, specie in alcuni dei casi nei quali il sequestrato è stato ucciso o è scomparso senza lasciare traccia; in qualche caso, invece, si può ritenere, o quantomeno sospettare, che la vittima sia stata indicata ad una banda già operante o appositamente costituita, per ottenere, attraverso la rovina economica, se non pure l'eliminazione fisica delle vittima, che si sapeva già ammalata ed anziana, la scomparsa di un parente facoltoso, di un concorrente, o di un socio incomodo, o del titolare di una attività lucrosa, che si intendeva sostituire. In questi casi si può parlare, anche se si hanno solo indizi e sospetti, di mandanti che operano o vivono anche al di fuori del mondo pastorale e che hanno strumentalizzato, a propri fini, l'attività di elementi criminali avidi di lucro".
PANICO e OLIVA, cit., P. 365.
Ciò spiegherebbe perché un alto numero di sequestrati siano stati uccisi o non abbiano più fatto ritorno a casa. La vendetta ha una lunga storia in Sardegna, fatta di rituali e di simbologie. Nella cultura barbaricina la vendetta era un diritto di chi si sentiva offeso e nello stesso tempo era un dovere da compiere senza delegare ad altri. Ricorrere ad altri per portare a compimento la propria vendetta potrebbe essere l'espressione di un adattamento di precetti antichi ma ancora vivi nei codici culturali dei primi decenni di questo secondo dopoguerra. Ma, ancor più importante, dato l'anno in cui venne scritta, il 1972, appare la sottolineatura della strumentalizzazione dei codici barbaricini da parte di mandanti che vivono all'esterno di quel mondo. Come si vedrà, quella tendenza si prolungherà fino ai nostri giorni. In Sicilia, quando si cercarono di scoprire le ragioni del sequestro di Luigi Corleo, sequestrato a Salemi in provincia di Trapani il 17 luglio 1975 e mai più ritornato a casa, si scoprì che la motivazione non aveva nulla a che fare con i soldi, nonostante che per la sua liberazione fosse stato richiesto un riscatto molto elevato. Lo scopo del sequestro era quello di "intaccare il prestigio di Stefano Bontate additando la sua incapacità a difendere un personaggio del calibro di Antonino Salvo", genero del rapito. Neanche il potente Gaetano Badalamenti, il famoso don Tano, seppure fosse all'epoca capo della commissione, riuscì a ritrovare il corpo che gli era stato richiesto dallo stesso Salvo. Il sequestro era opera dei corleonesi e faceva parte di una strategia tesa a conquistare il potere dentro la commissione di "Cosa nostra".
Vedi la ricostruzione fatta dai magistrati palermitani Antonio Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello che si trova in C. STAIANO, L'atto d'accusa dei magistrati di Palermo, Roma 1986, p. 343.
Anche per la 'ndrangheta ci furono motivazioni che erano ben diverse da quelle della mera riscossione del riscatto.
A volte si costringeva qualcuno a rinunciare a un appalto pubblico o a non parteciparvi, altre volte servì per richiamare sull'Aspromonte un numero rilevante di carabinieri e di poliziotti lasciando così sguarnite le coste, dove era più agevole far sbarcare carichi di droga e di armi.
La custodia degli ostaggi in Aspromonte aveva un significato particolare, con una forte valenza simbolica. In Aspromonte c'è il comune di San Luca nel cui territorio, per antica tradizione mai abbandonata, ogni anno si riuniscono i capi della 'ndrangheta. Mantenere inviolata quella zona e impedire la libera zlone dei prigionieri, nonostante la presenza delle forze dell'ordine e l'attività dei nuclei speciali antisequestro, era una questione di prestigio e significava inviare un messaggio di potenza e di invincibilità a tutto il popolo della 'ndrangheta.
Sui sequestri di persona si veda anche E. CICONTE, Un delitto italiano: il sequestro di persona, in L. Violante (a cura di), La Criminalità, Annali Storia d'ltalia Einaudi, n. 12, Torino, 1998.
Il dottor Carlo Macrì ha affermato nella sua audizione: "Nessuno è stato liberato in Aspromonte dalle forze dell'ordine; solo in uno o due casi si è avuta l'effettiva liberazione dell'ostaggio da parte delle forze dell'ordine e per fatti veramente eccezionali. Vi è quindi un senso di onnipotenza della 'ndrangheta e un senso di impotenza dello Stato. Soprattutto i sequestri hanno messo in luce l'incapacità dello Stato di controllare un grosso territorio quale è quello dell'Aspromonte". Tenere a lungo gli ostaggi in Aspromonte, soprattutto quelli provenienti dal Nord dopo aver attraversato impunemente tutta la penisola, era, oltre che un affare economico, una questione che aveva una stretta attinenza con la strategia politica della 'ndrangheta intenzionata, fino ai primi anni novanta, a mostrare la sua potenza in una sfida diretta con lo Stato.