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relazione sui sequestri di persona a scopo di estorsione
(Relatore: senatore Pardini)
PARTE TERZA

 

il racconto dei sequestrati

 

Dietro ogni numero c'è una incredibile sofferenza umana sia da parte della persona offesa - privata della libertà e costretta a rimanere rinchiusa in luoghi angusti e inospitali, isolata completamente dal mondo esterno, in balia dei propri carcerieri - sia da parte dei familiari che non di rado sono tenuti per lungo tempo senza una prova certa che il proprio congiunto sia vivo, costretti a sottostare ai ricatti dei sequestratori, combattuti tra esigenze che troppo spesso sono apparse in conflitto: quella della liberazione dell'ostaggio, che è obiettivo primario dei familiari, e quella della cattura degli autori del reato, che sembra essere lo scopo principale delle forze dell'ordine.
Il Comitato ha ascoltato a Nuoro, a Reggio Calabria, a Brescia e a Milano alcuni sequestrati e alcuni familiari di sequestrati che non hanno fatto più ritorno alle loro case. Sono stati ascoltati Silvia Melis, Giuseppe Vinci, Ferruccio Checchi, Fausta Rigoli Lupini, Rocco Lupini, Audinia Marcellini Conocchiella, Giovanna Ielasi Medici, Domenica Brancatisano Cartisano, Giuseppe Cartisano, Francesco Falleti, Giuseppe Soffiantini, Carlo Soffiantini, Angelina Montagna Casella e Cesare Casella.
Le loro parole descrivono la drammaticità della prigionia, l'inciviltà dei loro carcerieri, gli effetti traumatici - sul piano psicologico e sul piano fisico - della mancanza di libertà.

Il sequestro è un reato che produce effetti non solo durante il periodo della consumazione dello stesso, ma anche dopo l'avvenuta liberazione. Ancor più li produce per quelle famiglie il cui congiunto non ha mai fatto ritorno a casa. Un naturale senso di pudore e probabilmente la volontà di non rivivere ancora una volta quella loro sconvolgente esperienza ha indotto gli ex sequestrati a non soffermarsi troppo sul racconto del periodo di prigionia. E tuttavia dalle loro parole è possibile ricavare alcuni elementi di estremo interesse. Silvia Melis ha detto:

"Per quanto riguarda il trattamento questo varia, ma per un programma ben preciso, che è quello di trattare bene in un primo momento, nel primo periodo, mentre poi con il passare del tempo, per varie ragioni, vuoi perché si innervosiscono, vuoi perché salta sempre qualcosa, la situazione cambia. Ad esempio, io credo e continuo a sostenere che la mia unica prigione avrebbe dovuto essere la casa; poi deve essere successo qualcosa che sicuramente ha impedito di restare lì e sono stata spostata per quel motivo. Quello sicuramente è stato un elemento che li ha innervositi, per cui il buon trattamento è venuto meno; ovviamente una cosa è stare in una casa dove ti riscaldano l'acqua, ti danno la roba pulita con una certa frequenza, un conto è stare all'aperto dove, ad esempio, ti devi lavare con una bottiglia di acqua ghiacciata. Il trattamento quindi varia e le ragioni sono molteplici".

Il sequestrato è in balia degli umori dei loro carcerieri. Questi sono dei professionisti, sanno che il sequestro sarà di lunga durata, e si preparano come meglio possono a fare in modo che le persone in loro potere possano sopportare quelle lunghe giornate che sembrano non passare mai. Perciò sono attenti, a volte, agli stati d'animo dei loro prigionie ri. Ha raccontato ancora Silvia Melis:

"Loro svolgono un ruolo, sviluppano una psicologia intomo all'ostaggio, e quindi la chiacchierata quotidiana. Io sono rimasta anche otto ore sempre a giocare a carte perché era l'unico modo per stare io senza bende e lui con il cappuccio e quindi, anchce se non ne avevo la minima voglia, pur di non avere la benda addosso capitava anche questo. Il giorno però che aveva qualcosa di storto, che non gli era andato bene, mi faceva stare tutto il giorno ininterrottamente con la benda e passava il tempo a leggere il giornale. Dipendeva dal loro umore, quindi ogni mattina ero lì in attesa di verificare che cosa prevedeva la giornata".

Anche Giuseppe Vinci ha detto che "nel ruolo di queste persone c'era la chiacchierata quotidiana con il sequestrato, perché la situazione era difficile da sopportare. Dopo pranzo, dieci minuti, quindici minuti, mezz'ora, a seconda del caso, chiacchieravo con queste persone, con una in particolare". Dopo, ricominciava la solitudine, in "una celletta di un metro e mezzo per due tutta di compensato, senza finestre, senza luce elettrica, a lume di candela". Sono stati "dieci mesi di buio, di silenzio, di prigionia, di impotenza, visto che nessuno era riuscito a fare niente".

L'angoscia e la disperazione dei sequestrati sono espresse da questa frase: "L'unico legame con il mondo è quello di cercare di non perdere la cognizione del tempo".
Un'esperienza così sconvolgente segna nel profondo chi ne è stato protagonista. Gli effetti del sequestro durano ancora dopo. La liberazio ne non cancella il sequestro. Ancora Vinci ha raccontato:

"Bisogna rendersi conto della situazione di un sequestrato, quella di una rabbia che si trascina, che non è che una volta finito il sequestro si spegne un interruttore per cui la storia è finita. Quando mi hanno interrogato le prime volte io ero ancora prigioniero, ero ancora lì dentro, per cui tutto il mio atteggiamento era quello di uno squilibrato sequestrato, al buio, in una grotta-prigione (anche se la mia non era una grotta), tenuto in ostaggio; l'atteggiamento di questo tipo è quindi un po' legato alla situazione psicologica dell'ostaggio".

Anche per Ferruccio Checchi gli effetti sono duraturi.

"Dopo il "fatto" ho affittato l'azienda e me ne sono andato, perché preferisco venire qui il meno possibile: quando si fa notte non mi sento tranquillo, tante altre persone erano cointeressate o in qualche modo fiancheggiatrici del mio sequestro ed io so che queste stanno tranquillamente a casa loro".

C'è, in tutti i racconti un alternarsi di speranza e di angoscia. La durezza della prigionia e le minacce di morte sono devastanti al punto tale che un gesto di elementare umanità induce a sentimenti di commozione. E questa l'esperienza descritta da Giuseppe Soffiantini:

"Nei primi quattro mesi sono stati anche buoni, portandomi addirittura della frutta (uva e mele), ossia un tipo di alimento che in quelle condizioni sembra una leccornia. Successivamente è diventato tutto più difficile, anche con l'alimentazione. I sequestratori, comunque, andavano a fasi alterne; c'erano giorni in cui erano cattivi, parlavano poco e ciò che dicevano consisteva in minacce, altri in cui erano un po' più tranquilli. Addirittura un paio di volte, perché secondo loro mi ero mosso un po' più del solito o avevo fatto dei rumori, ho visto uno di loro impugnando la pistola rimanere nelle mie vicinanze, andare via facendo tre passi in dietro per poi ripensarci e farli di nuovo in avanti, fino ad andare via definitivamente. Ho avuto la sensazione che fosse venuto per uccidermi. Due o tre volte mi hanno portato una mela cotta ed in quelle occasioni mi sono messo a piangere. Mi sono commosso perché prima venivano a minacciarmi con la pistola per uccidermi, oppure promettendomi una picconata in testa, poi magari mi portavano la mela cotta. Certo che quando dovevano esservi dei contatti, cioè si doveva pagare, e al posto dei soldi arrivava la polizia, allora diventavano veramente cattivi e molto agitati. Quando ci giravano gli elicotteri sulla testa poi, erano veramente nervosi. I miei sequestratori mi avevano promesso che in caso di arrivo delle forze dell'ordine il primo a morire sarei stato io. Loro avrebbero combattuto perché altrimenti si sarebbero fatti 30 anni di prigione, cosa che non desideravano affatto. Mi dissero che se non fossero morti nel conflitto a fuoco, l'ultima pallottola l'avrebbero tenuta per loro. Si trattava di persone estremamente decise. A quel punto desideravo che dagli elicotteri non mi vedessero oppure che le forze dell'ordine utilizzassero tutti i riguardi per compiere il blitz al momento opportuno, in modo da non essere ucciso, anche se in quelle condizioni si pensa anche che la morte non è il peggiore di tutti i mali. Però, finché c'è vita c'è speranza".

E poi c'è il tentativo di far crollare il sequestrato, di insinuargli nella mente che la responsabilità vera della mancata liberazione non era dei sequestratori, ma dei familiari. Uno dei carcerieri disse a Soffiantini:

"Quegli infami dei tuoi figli piuttosto che tirar fuori i soldi preferiscono averti a casa a pezzetti". E ancora: "Ormai più nessuno si ricorda di te".

"Loro - ricorda Soffiantini - cercavano di demolirmi da questo punto di vista".

E appena il caso di ricordare che Soffiantini è stato mutilato per ben due volte. Ci sono poi i luoghi del sequestro, angusti, tetri, angoscianti. Vinci è stato tenuto prigioniero in Sardegna in un casolare al cui interno era stata ricavata la celletta dove "filtrava qualche raggio di luce dalle fessure del legno". Soffiantini in Toscana rinchiuso nelle tende. Fausta Rigoli Lupini in Aspromonte, prima per tre giorni all'aperto sotto gli alberi e poi "in un cunicolo nella montagna con due buchi, costruito con lamiere e mimetizzato con degli alberi". E poi ancora in covi usati in precedenza per altri sequestri. "Normalmente i buchi dove ci portavano erano squallidi, in uno invece ho trovato un libro, un asciugamani, indumenti intimi, saponette, tutto nascosto sotto le pietre". Il dottor Carlo Macrì ha ricordato il "segno indelebile" lasciato sui sequestrati: "Ho visto persone sequestrate ridotte a larve umane... Ricordo Martelli, tenuto bendato e con le orecchie otturate, completamente immobilizzato per molti mesi, non poteva né camminare né sentire".