Fin dall'inizio
della sua attività di indagine il Comitato per i
sequestri ha sentito sollevare il problema, da parte di
tutte le personalità audite, soprattutto da parte dei
rappresentanti delle associazioni ex sequestrati e contro i
sequestri, del titolo del reato, che attualmente è
collocato tra i delitti contro il patrimonio.
Ebbene, ci pare ragionevole accogliere i suggerimenti
proposti, anche da alcuni disegni di legge presentati in
Parlamento, perché si modifichi la collocazione
sistematica del reato non più contro il patrimonio ma
contro la persona, anche alla luce delle modifiche normative
dell'articolo 630 c.p., che hanno spostato in tal senso
l'attenzione sull'oggetto della tutela personale. Questa
modifica, oltre a produrre sulla società anche un
diverso impatto psicologico trasferendo contro la persona
umana l'offesa subita, introduce una successiva modifica
legislativa a nostro parere ben più significativa.
Riteniamo, infatti, che si possa introdurre, nell'articolo 7
della legge 82/91, la possibilità di autorizzare il
pagamento controllato anche al fine di salvaguardare la vita
dell'ostaggio e di ottenerne la liberazione, purché
in funzione dell'approfondimento delle indagini e della
successiva cattura dei rapitori, cattura che non
necessariamente si deve produrre all 'atto della consegna
del riscatto, ma anche in seguito. Collegare la liberazione
dell'ostaggio alle indagini è, come suggeriscono
molti inquirenti- forze di polizia e magistratura - che
hanno studiato a fondo il problema, l'unico modo per evitare
da una parte di tornare ad un eccesso di
discrezionalità del magistrato nell'applicazione del
dispositivo, dall'altra per non rischiare che i
sequestratori utilizzino fin da subito metodi di pressione,
quali mutilazioni o violenze in genere. D'altra parte tutti
gli inquirenti, magistrati e forze dell'ordine, auditi dal
Comitato hanno ascritto una notevole importanza, ai fini
investigativi, alle dichiarazioni rese dagli ostaggi una
volta liberati. Il dottor Fleury ha definito "una miniera di
notizie" quanto un ex sequestrato è in grado di
raccontare e quindi riteniamo che sia estremamente
importante, ai fini dell'implementazione delle indagini,
favorire appunto, anche attraverso una specificazione nel
dispositivo di legge, la liberazione dell'ostaggio mediante
il pagamento controllato. Agendo in questa maniera è
ragionevole pensare che vengano inoltre superati molti degli
ostacoli, delle diffidenze, che quasi sempre si sono
prodotti tra inquirenti e familiari. Silvia Melis ha
dichiarato che "mentre ai magistrati e ai carabinieri
interessava catturare i rapitori, alla mia famiglia
interessava soprattutto liberare me".
Ebbene, questa che appare una sostanziale divergenza di
obiettivi, anche se nella realtà non è tale, e
che costituisce la base di tentativi di contrattazione
parallela, di depistaggi delle indagini e di interferenze le
più varie, può essere risolto esplicitando,
nelle motivazioni per il pagamento controllato, proprio la
liberazione dell'ostaggio. Dalla lettura del provvedimento
di richiesta del pagamento controllato del procuratore
Tarquini e dell'autorizzazione del GIP di Brescia, si evince
come la liberazione del signor Soffiantini fosse considerata
l'obiettivo, anche perché questo avrebbe perrnesso
poi una accelerazione delle indagini (vedi allegato
1). Riteniamo
che questa sia la vera arma legislativa per fare accettare
sul piano sociale il concetto di 'blocco dei beni', che, da
un dispositivo come sopra proposto, non subirebbe oltretutto
alcuna riduzione di significato. Il 'blocco dei beni'
è infatti disposto dal magistrato principalmente a
difesa della famiglia del sequestrato, perché toglie
la stessa dalla mercé dei sequestratori;
diversamente, come del resto tanti casi hanno dimostrato in
passato, non si vede perché i sequestratori
dovrebbero limitarsi ad una prima o seconda richiesta di
riscatto. A questo proposito va ricordato quanto detto da
Cesare Casella:
"Vi
prego non togliete il blocco dei beni, altrimenti i ricatti
non finiranno mai".
Questa norma del blocco, da
alcuni oggi contestata, ha, come abbiamo descritto nella
prima parte della relazione, un ulteriore effetto e
cioè quello di abbassare sensibilmente il prezzo del
riscatto, mettendo la famiglia nelle condizioni di non poter
disporre di grosse somme. Del resto, proprio con tale
finalità, come ha riferito il dottor Manganelli,
veniva disposto il blocco dei beni dai magistrati, quasi
sempre con il pieno accordo dei familiari, anche prima del
'91. Rimuovere il blocco dei beni al fine di liberare il
sequestrato deve restare una possibilità unicamente
nelle mani del magistrato e con un fine ben preciso: le
indagini; in tal modo non solo non viene lasciata sola la
famiglia nella trattativa, ma la normativa stessa
costituisce una formidabile arma di solidarietà tra
inquirenti e familiari. Ancora il dottor Manganelli ha messo
in guardia il Comitato dal proporre una revisione
dell'articolo 7 della legge 82/91 che formalizzi la
liberazione dell'ostaggio come fine esclusivo del pagamento
controllato perché questo fatto "è pericoloso
farlo sia per un segnale di inversione di tendenza che
potrebbe dare e sia per il fatto che legare l'apertura della
finestra al pericolo della vita dell'ostaggio significa
aprire non solo le porte ma anche le finestre, i balconi e
tutto il resto. Insomma, io non vorrei che domani oltre ai
lobi delle orecchie cominciassero ad arrivare le dita, le
mani o le braccia. Questo significherebbe aprire la strada
ad una pressione: chiunque sa che i beni si sbloccano
mettendo in pericolo la vita dell'ostaggio potrebbe farlo.
Il pericolo per la vita dell'ostaggio deriva dalla sua
condizione: l'ostaggio muore perché non ha le
medicine al momento giusto, perché riconosce il
bandito, perché deve morire o perché succedono
delle cose durante i trasferimenti; si tratta di situazioni
fisiche che in molti casi hanno determinato la morte
dell'ostaggio".
La misura del blocco dei
beni così modificata non ridurrebbe la sua forza in
termini di dissuasione, di scoraggiamento al commettere il
crimine, perché al contrario fornirebbe al magistrato
il controllo certo e assoluto di qualunque tipo di
pagamento, perché, evidentemente, la famiglia non
avrebbe più alcun interesse ad attivare suoi canali
alternativi di abboccamento con i sequestratori. Privati di
questi canali alternativi, privati della possibilità
di gestire in proprio il pagamento del riscatto, i rapitori
diventerebbero estrema mente deboli proprio nei due momenti
in cui maggiormente esercitano un grande elemento di
pressione sulle famiglie: il primo, quando impongono la
trattativa occulta, minando il rapporto fiduciario tra
famiglia e inquirenti, l'altro quando stabiliscono, a loro
piacimento, le modalità di pagamento. In entrambi
questi momenti i sequestratori agiscono attraverso la figura
dell'emissario, figura emblematica nel rapimento sardo,
praticamente sconosciuta nelle altre tipologie del reato e
di cui abbiamo ampiamente parlato in altra parte della
relazione. Già questa considerazione è
meritevole di attenzione: perché esclusivamente il
rapimento di matrice sarda vede all'opera in maniera
costante la figura dell'emissario, del mediatore?
Perché questa invece nel rapimento calabrese non
è istituzionalizzata? Non è facile dare una
risposta che sia semplice e risolutiva, dato che la figura
stessa dell'emissario è strettamente legata al
fenomeno dei rapimenti in Sardegna e si ricollega a quanto
dicevamo nell'introduzione, cioè alle tradizioni del
mondo agro-pastorale in cui questo reato è nato e si
è sviluppato quale diretta continuazione
dell'abigeato. Certo è che, soprattutto negli ultimi
casi di sequestro in Sardegna, si è configurata una
chiara tendenza alla "professionalizzazione" del mediatore.
Mentre in passato questo poteva essere un amico di famiglia,
un parente, a volte addirittura un sacerdote, che costituiva
duplice garanzia: nei confronti della famiglia circa la vita
dell'ostaggio, in quelli della banda, circa il pagamento del
riscatto; oggi la situazione è diversa. Spesso il
mediatore di un rapimento è stato poi trovato
coinvolto con un ruolo attivo in un altro caso di sequestro
di persona, a realizzare quindi un quadro di mobilità
di ruoli all'interno di bande dedite a questo tipo di reato.
Soprattutto dopo l'introduzione della legge sul sequestro
dei beni, essendo punita l'azione del mediatore, è
evidente che tale tipo di intervento è gravato di un
tale rischio che non si vede come esso possa essere
considerato possibile da chi non fa parte
dell'organizzazione stessa, con appunto un ruolo preciso,
quello dell'emissario.
A questo proposito è
istruttiva la lettura degli atti del dibattimento in corso a
Cagliari per il sequestro della signora Licheri, dove il
testimone Gaddone viene chiaramente indicato dal PM dottor
Mura non tanto come l'emissario per la trattativa, ma
realmente come complice dei sequestratori, col ruolo di
mediatore o percettore del riscatto. Vi sono ragionevoli
sospetti per ritenere che anche figure clamorose di emissari
coinvolti negli ultimi casi di sequestro possano avere avuto
un ruolo attivo, se pur a livello diverso da quello
operativo della banda, nella realizzazione del reato. Senza
di loro non si potrebbe accedere al pagamento del riscatto,
che oggi deve avvenire soprattutto con ogni garanzia per i
sequestratori più che per la famiglia, data la
pressione che le indagini sono in grado di creare. Garanzia
questa che pare si estenda anche al dopo sequestro e alla
eventualità che la banda venga arrestata, se non
vogliamo considerare casuale che, sia nel caso Vinci che in
quello Soffiantini, gli ex sequestrati non si sono
costituiti parte civile nel processo. Potremmo arrivare a
dire, condividendo l'opinione espressa da autorevoli esperti
di sequestri sardi, che probabilmente non esisterebbero
più sequestri in Sardegna se si togliesse di mezzo la
figura dell'emissario, come del resto anche l'esperienza
calabrese insegna. Pur condividendo l'idea del dottor
Pennisi, e cioè che i sequestri in Calabria sono
scomparsi perché la resa economica è poco
interessante per la 'ndrangheta, è pur certo che
questi si sono interrotti, per lo meno quelli con certe
caratteristiche organizzative, proprio in concomitanza con
la legge del 1991 e soprattutto perché il reato si
è dimostrato poco appagante anche in termini penali:
circa L'80 per cento dei responsabili di sequestri sono
stati catturati e condannati.
In Sardegna, invece, la
figura dell'emissario ha subìto una modificazione nel
senso di una sua specializzazione, se così possiamo
dire, al punto che in alcuni casi ne è stata tentata
l'esportazione, se pur senza successo. Riteniamo importante
non solo mantenere, come previsto dalla normativa in vigore,
la punibilità di chi a qualunque titolo intralcia le
indagini, ma proponiamo di individuare con precisione la
condotta del mediatore, che procede al pagamento non
autorizzato del riscatto, perché venga punito a
titolo di concorrente nel reato di sequestro di persona. Un
ulteriore significativo intervento legislativo, nell'ottica
di rendere più agevole la persecuzione e la
punibilità di colui che si frappone tra gli
investigatori, le famiglie ed i rapitori, sarebbe quello di
estendere la portata dell'articolo 12-quinquies della legge
7 agosto 1992 n. 356 anche al reato di sequestro di persona
a scopo di estorsione (in aggiunta, quindi, alle ipotesi
già previste di ricettazione, riciclaggio e relative
alla punibilità di chi impiega somme di denaro, beni,
utilità di provenienza illecita): questo articolo
prevede, infatti, che possa essere comminata una pena da due
a sei anni di reclusione a chiunque "attribuisce
fittiziamente ad altri la titolarità o la
disponibilità di denaro, beni od altre utilità
al fine di agevolare la commissione di uno dei delitti di
cui agli articoli 648, 648-bis e *er c.p.". La previsione
espressa del reato di sequestro di persona a scopo di
estorsione renderebbe punibili tutte quelle condotte di
intermediazione o di partecipazione nel reato qualificate da
un rapporto diretto del soggetto con il denaro destinato al
pagamento del riscatto. D'altra parte, in materia di norme
applicabili alle ipotesi di sequestro di persona a scopo di
estorsione, il successivo articolo 12-sexies della legge
citata, disciplinando "casi particolari di confisca",
indica, tra le ipotesi, anche la condanna per il reato di
cui all'articolo 630 c.p., disponendo che "è sempre
disposta la confisca del denaro, dei beni o del le altre
utilità di cui il condannato non può
giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta
persona fisica o giulidica, risulta essere titolare o avere
la disponibilità a qualsiasi titolo in valore
sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle
imposte sul reddito o alla propria attività
economica".
Una modifica legislativa che
ci pare condivisibile è quella, suggerita ancora da
alcuni disegni di legge giacenti in Parlamento, di rendere
maggiormente punibile il sequestratore che produce lesioni
all'ostaggio. E infatti ormai una triste costante di questo
reato la mutilazione dell'ostaggio o comunque l'abitudine di
sottoporlo a continue, gratuite e inaudite violenze fisiche
e psicologiche. Tali condotte non possono non aggravare la
situazione processuale del responsabile, ma devono anche
impedire poi che allo stesso si possano applicare eventuali
benefici penitenziari. Un ulteriore livello legislativo su
cui agire riteniamo sia quello che consenta di favorire,
ancor più concretamente di quanto già fa la
legge 82/91, la dissociazione e il ravvedimento di chi ha
partecipato al sequestro. Riteniamo del resto che, come
avvenuto durante il periodo del terrorismo, sia compito
dello Stato tentare di disarticolare direttamente i legami
che tengono insieme le bande di sequestratori e l'unico
sistema che fino ad ora si è dimostrato efficace
è proprio rendere estremamente significativo il
premio per colui che si dissocia. Dissociazione che deve
essere chiara, completa, deve contribuire realmente alla
liberazione dell'ostaggio e alla risoluzione dell'indagine
in tutti i suoi aspetti e deve prevedere che il "pentito"
non abbia commesso a sua volta violenza di alcun tipo
sull'ostaggio. Non sarebbe del resto comprensibile alcuna
forma di indulgenza per chi, pur dissociatosi, avesse
portato a termine azioni di violenza fisica sul rapito.
Inoltre va rotto quel legame omertoso, solidaristico che
spesso lega le bande di sequestratori a chi consente loro di
mantenersi in latitanza, a chi rifornisce loro vitto, abiti,
soluzioni logistiche. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, di
trovare gli strumenti legislativi per superare la
possibilità che alcuni testimoni, quali i parenti, si
rifiutino di deporre, per esempio, abolendo il comma 2
dell'articolo 3 della legge 82/91, anche se ci rendiamo
conto della delicatezza dell'argomento. Abbiamo appreso che
oggi i sequestri vengono compiuti anche in ambienti urbani,
approfittando della solidarietà complice di parenti
ed amici. Molti sequestrati hanno riferito di avere abitato,
almeno per certi periodi, in case riscaldate, di aver
mangiato pasti cucinati in genere: ebbene, ciò
è possibile solo mediante anche l'intervento di
donne, magari parenti dei sequestratori. Obbligare queste
persone a testimoniare, quando non ne fossero manifeste e
quindi perseguibili le complicità, riteniamo possa
essere un'arma importante, non solo per le indagini, ma
anche per creare veri ostacoli logistici alla commissione di
questo reato. Infine, e ci rendiamo conto di toccare un
punto molto delicato, sarebbe probabilmente opportuno
sanzionare con maggior rigore chi, venuto a conoscenza di
particolari circa un sequestro, non riveli quanto saputo
alle autorità inquirenti, come del resto già
previsto dall'articolo 3 della legge 82/91. Sbloccare
l'omertà, favorire e, dove occorre, obbligare le
testimonianze e le dissociazioni, riteniamo possano essere
alcuni interventi legislativi utili ad affrontare in maniera
certo radicale, ma forse più decisa un reato
così odioso come il sequestro di persona. Nella fase
delle indagini preliminari potrebbe valutarsi la
possibilità di restringere l'accesso al giudizio
abbreviato, che comporta in caso di condanna una riduzione
di un terzo della pena, per 630 c.p. e altri gravi reati
quali quelli indicati all'articolo 4-bis Ord. pen. e 407
c.p.p. Sugli strumenti operativi e preventivi, in altre
parti della relazione, abbiamo già svolto alcune
riflessioni, tuttavia è giusto precisare
ulteriormente alcuni punti. Innanzitutto non riteniamo si
debba procedere, come per la verità da alcuni
auspicata, alla istituzione di un nucleo stabile, centrale
di indagine sui sequestri di persona, che divenga, in caso
di necessità, dominus
delle indagini.
Riteniamo, come già
detto, che debbano continuare ad essere le DDA presso le
Procure protagoniste e titolari delle indagini, ben sapendo
che compete ad un procuratore distrettuale coordinare le
indagini per questo tipo di reato. Tuttavia i nuclei
interforze che il Ministro dell'interno insedia, quando si
verifica un sequestro, debbono prevedere l'utilizzo, anche
attraverso le applicazioni e i trasferimenti temporanei,
tutte le migliori professionalità disponibili.
Inoltre la DNA dovrebbe, come del resto già fa ora,
mettere a di sposizione delle DDA non solo tutti i dati di
cui la costituenda banca dati nazionale dispone, ma anche,
se necessario, distaccare un suo magistrato particolarmente
esperto in materia, allo scopo di coordinare il la voro
inquirente, esperienza del resto già vissuta, ad
esempio, durante le indagini del caso Soffiantini. E
pertanto auspicabile che alla DNA vengano attribuite le
prerogative atte a rendere effettive ed efficaci queste
funzioni di coordinamento. Dal punto di vista delle
dotazioni strumentali sarà sicuramente interessante
seguire i progressi della tecnologia, anche se, come
riferito da più esperti, anche nel passato molte
speranze riposte nella strumentazione sono cozzate contro
difficoltà logistico-ambientali, per il momento
ancora difficilmente superabili.
Sul piano più
generale abbiamo già parlato di piani di
ristrutturazione delle squadriglie antisequestro, sulla
apertura di un maggior numero di caserme dei Carabinieri
nelle zone più a rischio, insomma quello che
auspichiamo è una maggiore razionalizzazione
dell'utilizzo delle risorse umane sul territorio,
così che non vi sia una eccessiva concentrazione
nelle zone urbane, di carabinieri, di uomini della polizia e
della Guardia di finanza, ma vi sia una loro razionale
distribuzione sul territorio extraurbano, perché
venga fortemente rilanciata la ricerca dei latitanti. Va
caldeggiata a questo scopo - come si è già
accennato - la costituzione di una centrale DIA in Sardegna.
Ancora vanno fortemente intensificate le presenze di
magistrati nelle zone più a rischio, quindi negli
uffici e nei distretti giudiziari sardi e calabresi
maggiormente esposti a questo tipo di reato, dando assoluta
priorità alla copertura degli organici nelle
realtà più disagiate, incentivando
l'applicazione di magistrati del pubblico ministero di
uffici periferici presso la DDA, di uomini della Guardia di
finanza, così da incrementare le purtroppo
relativamente scarse indagini patrimoniali, che in questo
campo sono difficili ma indispensabili. A conclusione di
questo paragrafo circa l'organizzazione delle indagini e
l'implementazione degli strumenti preventivi, ci sembra
doveroso accennare a due aspetti, spesso misconosciuti, ma
fortemente sottolineati da famiglie ed ex sequestrati. Il
primo aspetto da considerare è quello della "fuga di
notizie" e quindi il ruolo dei mezzi di informazione nei
casi di sequestro di persona. Se da una parte è
doveroso accertare le responsabilità delle fughe di
notizie e sanzionare pesantemente gli eventuali autori,
dall'altra è indispensabile richiamare i media ad un
particolare codice deontologico in questi frangenti.
È da ricordare come una notizia apparsa sui giornali,
quando doveva restare segreta, è costata la seconda
mutilazione a Giuseppe Soffiantini. Non diciamo si debba
ricorrere a norme legislative che regolamentino in forma
restrittiva quella che deve restare una assoluta
libertà di stampa, se pur contemperata dal divieto di
pubblicazione degli atti di indagine, riteniamo però
che la particolarità di questi avvenimenti richieda
una particolare sensibilità da parte di tutti i mezzi
di informazione.
Il secondo aspetto
sottoposto al Comitato, soprattutto durante l'audizione a
Nuoro di Giuseppe Vinci, è stato quello di una
particolare attenzione da parte del Ministero delle finanze
nei confronti delle famiglie costrette a pagare ingenti
riscatti ove essi avvengano nell'ambito del pagamento
controllato. Questo potrebbe costituire un forte incentivo
per le famiglie alla collaborazione con gli inquirenti e a
non ricercare nelle zone grigie canali altemativi di
pagamento del riscatto. Ci rendiamo conto che la materia
è estremamente delicata e particolarmente pericolosa,
per il rischio di abusi, e tuttavia riteniamo giusta una
riflessione sulla materia da parte degli organismi
competenti, ai quali si chiede sensibilità e
ragionevolezza, anche dopo la soluzione di un caso di
sequestro di persona, nello studiare meccanismi fiscali che
tengano conto delle particolari condizioni economiche delle
famiglie e non gravino come ulteriore balzello su economie
già provate.