Valeria Fraschetti per “La Repubblica”
Da vittima a colpevole. Stuprata e poi condannata per rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Una storia terrificante quella che è accaduta ad una ragazza norvegese di 24 anni, Marte Deborah Dalelv, designer di interni in quell’angolo di terra – gli Emirati arabi – che dietro ai suoi grattacieli sfavillanti e all’economia che galoppa sui petroldollari nasconde ancora una società dove il rispetto dei diritti umani è spesso miserevole. Specie quando si tratta di diritti femminili.
La vicenda ha inizio a marzo, anche se è stata rivelata ai media dalla donna solo ieri. Marte deve lasciare per alcuni giorni il Qatar, dove lavora dal 2011, per Dubai. Un meeting di lavoro, seguito da una festa tra colleghi. E proprio durante il party – ha raccontato – uno di loro la violenta. Lei corre a chiedere aiuto alla reception dell’albergo, vuole esporre denuncia. Così le hanno insegnato che si fa, quando si subisce un abuso.
Invece, Marte, non sa che il codice penale locale prevede che per dimostrare uno stupro ci sia bisogno di una piena confessione dell’imputato, oppure della deposizione di almeno quattro testimoni oculari, di sesso maschile. Tanto che, secondo quanto riferirà la ragazza, l’impiegato di turno dell’hotel le chiede se è davvero sicura di voler coinvolgere la polizia. Certo che sì: «Questo è quello che si fa dalle mie parti», avrebbe replicato.
Ma la denuncia si trasforma in una trappola. Marte viene arrestata. Un fermo di tre giorni, in cui viene sottoposta a un lunghissimo interrogatorio. Le viene confiscato il passaporto. E, soprattutto viene sottoposta ad una visita ginecologica e ad analisi del sangue per verificare la presenza di alcool, che la legge locale vieta, anche se in realtà il consumo è tollerato purché non avvenga sotto gli occhi delle autorità.
Quantomeno le venivano garantite le telefonate. Così le pressioni dell’ambasciata norvegese negli Emirati sono riuscite a ottenere il rilascio della donna, che è attualmente libera e in attesa del processo di appello, a settembre, si sarebbe rifugiata in una chiesa di Dubai, (o nel Centro per marittimi norvegesi della città, secondo altre fonti).
Ma l’aiuto di Oslo, e la mobilitazione delle organizzazioni per i diritti umani e degli “amici” su Facebook, non sono bastate ad evitarle la condanna, arrivata mercoledì scorso: 16 mesi di reclusione. Per «adulterio, spergiuro e consumo di alcol». Le stesse accuse con cui è stato condannato il suo stupratore, che però ha ricevuto una pena inferiore, 13 mesi.
«Stupore» è stato espresso dal ministro degli Esteri norvegese Espen Barth Eide, che ha sottolineato come il verdetto sia contrario al senso di giustizia del suo Paese. Ma fedele al senso della giustizia islamica, che già altre volte aveva coinvolto delle straniere, mettendo in luce le astronomiche differenze di trattamento nella giurisprudenza fra donne e uomini.
Solo a dicembre, sempre a Dubai, una 28enne britannica, stuprata in branco da tre uomini, era stata accusata di aver bevuto illegalmente alcol e costretta a pagare una multa di 260 dollari. «Quando si tratta di ricevere giustizia per casi di violenza sessuale – hanno dichiarato da Human Righsts Watch – le donne degli Emirati devono ancora fronteggiare barriere spesso insormontabili».
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