indice

 

 

IL ROMANZO DELLA SUPERANONIMA
di FRANCESCO BASSI
GIORNALISTA

 

QUELLA STORIA DI PANTALONI CHE TRADI' I BANDITI
Il sequestro di Pupo Troffa / ultimo atto

 

"Noi abbiamo in mano tuo fratello. Tu hai i quattrini. Se vuoi rivederlo, sbrigati a pagare. Non siamo disposti a cedere. Ci siamo già calati abbastanza i pantaloni". Quando Daniele Troffa riferì questa telefonata, ricevuta da uno dei rapitori, nessuno del carabinieri e degli agenti che stavano preparando il verbale si impressiono più di tanto. Ma quel "ci siamo calati abbastanza i pantaloni" tornò in mente al giudice istruttore Luigi Lombardini che, concluso il sequestro dei fratelli Casana, aveva appena finito di interrogare Luciano Gregoriani e di raccogliere la sua confessione. L'oscuro allevatore di Santulussurgiu, trasformato in bandito a tempo pieno, si era scaricato la coscienza raccontando tutto quello c'è sapeva sul rapimento dei due ragazzi torinesi. Ma quella messe di sequestri che aveva impestato per due anni la Sardegna era ancora piena di punti oscuri. Così il magistrato decise di andare a risondare l'ex capobanda finito a Buoncammino. &endash; Ne sa qualcosa di quella telefonata a Daniele Troffa? Il bandito usa li stessi termini che ha usato lei per dettare una lettera a Marina Casana...

 

 

L'OSTAGGIO IN MANO AI SUOI CUSTODI

 

Gregoriani impallidì. Ma ormai anche lui penso di essersi "calato abbastanza i pantaloni" ed incomincio a dettare un altro capitolo della sua incredibile confessione. Dalle fasi preparatorie del sequestro Troffa, fino al suo rilascio; dalla cattura di Giovanni Piredda alla liberazione di quest'ultimo. Ma Gregoriani non trascurava i particolari. "Prendemmo Troffa &endash; dice &endash; e con altri tre complici lo portammo nel punto scelto per la consegna, in una località distante non più di due chilometri da Sarule. Per un giorno rimane con noi, in un ricovero improvvisato, tra alcune rocce coperte di vegetazione. Poi lo portammo in una zona di campagna accanto alla strada provinciale che va da Orotelli ad Orani. Lo consegnammo a due individui incappucciati giunti quasi contemporaneamente a noi sulla macchina di Giovanni Costa, una "Peugeot" bianca targata Nuoro. Con il Costa c'era anche Paolo Mereu".

Luciano Gregoriani ha praticamente concluso la sua parte nell'operazione criminale. Gli spetta (secondo gli accordi presi prima di imbarcarsi in questa avventura) una parte del cinquanta per cento del riscatto, da dividere con gli altri esecutori materiali del rapimento. Dovrebbe incassare nel giro di pochi mesi. Ma il tempo passa inutilmente. "Per mesi &endash; continua Gregoriani &endash; non ebbi nessuna notizia sull'andamento delle trattative. Avevo parlato sia con Felline che con Costa e mi avevano risposto che non si doveva aver fretta e che occorreva far tutto con grande calma per non pregiudicare il buon esito del l'azione". Una risposta che Gregoriani non reputa convincente. Legge sui giornali che i banditi hanno chiesto un riscatto molto elevato, quattro miliardi. Si rimette in contatto con Giovanni Costa e gli domanda spiegazioni. "Hai scritto tu alla famiglia Troffa?". "Bugie dei giornalisti. Non e vero niente".

Un paio di settimane dopo i giornali pubblicano un'altra "bugia". I familiari di Troffa sostengono al aver ricevuto un'altra lettera. Gregoriani (che dovrebbe essere tenuto al corrente delle trattative ed è convinto che non ci siano ancora state prese di contatto) domanda ancora una volta chiarimenti. "Guarda che sono tutte balle", gli risponde il complice. "Non abbiamo ancora incominciato a trattare". Ma Luciano Gregoriani non e stupido. "A quel punto io e gli altri del mio gruppo incominciammo a convincerci che Giovanni Costa non si stesse comportando lealmente. Decidemmo quindi di avere un chiarimento con costui e fissammo un appuntamento al motel Agip di Nuoro". Il summit avviene. Vi partecipano, con Gregoriani, Antonio Felline, Mario Marcello, Daniele Mulas, Giuseppe Mureddu, Salvatore Cadeddu, oltre &endash; ovviamente &endash; a Giovanni Costa.

Dai verbali di interrogatorio di Gregoriani: "Davanti al piazzale dell'albergo vi e stata una discussione abbastanza concitata durante la quale il Costa, messo alle strette, finì per ammettere che una lettera era stata effettivamente inviata senza peraltro che vi fosse stata alcuna richiesta di riscatto ma al solo scopo di fornire al familiari notizie sul rapito".

Costa ammette di aver imbrogliato le carte. Gregoriani se la prende a male.

"In quella circostanza &endash; si legge nella sentenza di rinvio a giudizio &endash; il Gregoriani si era ad un certo punto rivolto al complice con la frase testuale: "Per prendere Troffa mi prendo trent'anni; per ammazzare te mi prendo la medaglia". Tra i banditi o meglio tra le due correnti interne alla banda, quella che fa capo a Gregoriani e quella condotta da Costa) non corre dunque buon sangue. Per questo motivo tra l'altro, i contatti tra gli emissari ed i fuorilegge sono sempre più rari. La famiglia Troffa poi non riesce a capire cosa stia succedendo. Perché tra l'altro, anche se Costa ha giurato e spergiurato che d'ora in avanti non farà un solo passo senza aver avvertito i complici, Gregoriani e Felline sono tutt'altro che tranquilli. E per evitare di incappare in un "bidone" da parte dei "compagni di lavoro", si inseriscono direttamente nelle trattative. Preparano un messaggio alla famiglia Troffa invitandola a non pagare alcun riscatto "se non avesse avuto preventivamente opportune istruzioni da loro. Come prova che essi erano i veri rapitori avevano deciso di far trovare nei pressi di una pietra miliare l'orologio del rapito". Stanno per spedirlo quando arriva l'occasione buona per "punire" Giovanni Costa. Si incontrano a Sassari. Felline e Gregoriani hanno deciso di condurre le trattative in prima persona. Tutti d'accordo? Senz'altro. Nella banda si e ritrovato un minimo di unità.

 

 

 

VENTI MILIARDI NEL CONTO IN BANCA

 

Gregoriani &endash; così almeno sembra &endash; ha ripreso le sue funzioni di comandante in capo. Ma non e tranquillo. Non gli piace per esempio uno degli emissari dei Troffa, quel Pietrino Carta (che il giudice Istruttore scagionerà dall'accusa di aver preso parte al rapimento dell'industriale sassarese) di Orgosolo di cui dice "ero convinto che, nonostante fungesse da emissario, fosse in realtà interessato al sequestro. Innanzitutto perché era nipote del latitante Gonario Carta, che insieme a Salvatore Cassitta aveva in mano l'ostaggio eppoi per un'altra circostanza, estremamente singolare. Dalla sentenza di rinvio a giudizio. "Antonio Felline aveva riferito di aver sentito casualmente la moglie, Marta Nuvoli, impiegata di banca, dire che Troffa aveva da poco incassato 21 miliardi dalla vendita di azioni della "Trans Tirreno Express". Dopo aver appreso ciò i malviventi avevano deciso di predisporre un elenco preciso delle attività dell'industriale per passarlo poi al Costa che a sua volta avrebbe dovuto consegnarlo ai latitanti Carta e Cassitta. In questo elenco, per quanto si riferiva all'operazione della "Trans Tirreno era stata volutamente indicata la cifra di venti miliardi anziché quella esatta di ventuno. E ciò allo scopo preciso di non far capire al Troffa che l'informazione era giunta dalla banca". Eppure Pietrino Carta, in veste di emissario, dice ai banditi: "Non è vero che Troffa abbia tanti soldi. Anche quella storia dei venti miliardi avuti dalle azioni è una diceria".

Gregoriani, insomma, non e convinto della "onestà" dei suoi complici. Immagina che gli stiano tirando un brutto scherzo. E prende in mano le trattative facendo una telefonata nella quale vuole informare i parenti dell'ostaggio che Pupo Troffa non sta bene e che devono sbrigarsi a pagare. "Non pensai di alterare la voce. Ero sicuro che non mi avreste preso" dirà durante la confessione.

Le trattative continuano. Vanno in porto. I banditi si accordano per lo scambio tra Pupo Troffa ed il suo dipendente Giovanni Piredda che assieme a Pietrino Carta ha fatto per lungo tempo da emissario. Si decide di accettare il nuovo ostaggio ed i sette cento milioni che la famiglia Troffa ha offerto come riscatto. E' tutto pronto. Ci vuole, come al solito, una macchina non sospetta per trasportare Troffa lontano dalla zona in cui e stato tenuto prigioniero, in questa occasione Gregoriani è modesto. Ruba una "500", toglie il sedile anteriore destro per far spazio all'ostaggio e tenerlo nascosto. Va a prenderlo. "L'appuntamento per la liberazione del Troffa con Costa, Marcello, Paolo Mereu, Giuseppe e Gonario Mureddu era stato fissato al bivio di Oniferi dove Gregoriani era giunto con l'autovettura rubata. Allo scopo di controllare eventuali passaggi di auto della polizia e dei carabinieri &endash; si legge nella sentenza dl rinvio a giudizio &endash; erano stati poi "dislocati" gli altri banditi. Tanti "pali" lungo la strada: "Pietro di Orune", al bivio di Lula, Gonario Mureddu all'incrocio della strada che porta a Pratosardo, Marcello a "Marreri". È tutto a posto. Si parte: "Gregoriani con la "500"; Giuseppe Mureddu e Paolo Mereu con una "127". Costa se ne era invece andato.

La processione di auto si avvia "Paolo Mereu il quale conosceva il punto esatto in cui avrebbe dovuto verificarsi l'incontro con i latitanti che avevano in consegna l'ostaggio, giunto nella zona di "monte Pizinnu" fra "Marreri" e Siniscola aveva imboccato una stradetta dove poi tutti avevano atteso per una decina di minuti finché erano sopraggiunti i latitanti. Armati e mascherati. Assieme al Troffa. Che si presentava in condizioni pietose. Il latitante più grosso di corporatura (Gonario Carta) si era appartato per parlottare con Paolo Mereu. L'altro latitante era Salvatore Cassitta". Pupo Troffa parte per il viaggio che concluderà la sua avventura. Non lo sa ma gran parte dei fuorilegge che lo hanno rapito, lo saluta dal ciglio della strada. Dopo più di sei mesi viene liberato nelle campagne di "Figa Ruja", Siligo.

Andrà a prenderlo (avvertito per telefono da Gregoriani) quel Pietrino Carta che "non gli piace per niente".

 

 

DISSIDI INTERNI TRA I RAPITORI

 

Daniele Troffa ha pagato. Ma ai malviventi non tornano i conti. Anziché settecento milioni se ne ritrovano soltanto seicentonovanta e, tanto per cambiare riprendono a litigare tra di loro. Non tornano i conti neppure dopo la liberazione di Piredda che per i rapitori valeva duecento milioni e ne raggranellano soltanto la meta. Rischiano di venire alle mani perché dopo aver sognato di diventare miliardari si ritrovano con poche decine di milioni a testa. Si lasciano, da buoni nemici, e si ritroveranno a Buoncammino. Dove Luciano Gregoriani, "pentito" o no, ha appena finito di raccontare al giudice la sua versione del sequestro Troffa. Il magistrato ha preso appunti. Scatta il primo "blitz" (siamo nel febbraio del 1980) contro il banditismo sardo. Decine di agenti di polizia e di carabinieri trascorrono notti insonni. Si presentano in varie case con i giubbotti antiproiettile e con la pistola in pugno. Arrestano, arrestano, arrestano. Fanno anche qualche piccolo errore di persona ma rimediano alla svelta. Il 4 marzo 1980 il giudice Luigi Lombardini può incominciare a raccogliere i frutti del suo lavoro. Interroga Gonario Mureddu, trentacinquenne auto trasportatore di Sarule, che Gregoriani ha appena finito di collocare tra i suoi "fidi". Ecco il verbale: "A questo punto voglio mettermi reo confesso e dichiarò che tutto quanto dichiarato dal Gregoriani corrisponde a verità. Effettivamente ho avuto venticinque milioni. Cinque li ho dati a Pietro Ruju, di Orune. Sono disposto a restituire i venti milioni che ho avuto come compenso del sequestro Troffa...". Poi interroga Mario Ladu, autonoleggiatore di Sarule. "Mi e stato offerto di partecipare al sequestro. Fu Felline a chiedermelo. Mi offrirono venti milioni soltanto perché sapevo chi c'era in mezzo. Non volli accettare".

 

 

"VOLEVANO UCCIDERE I MIEI BAMBINI"

 

Quando e la volta di Elsa Sotgia, la "confessione" è completa. O quasi. "Qualche giorno prima del sequestro Troffa, Gregoriani venne a casa mia. Mi consegno una borsa. La aprii per curiosità e mi accorsi che conteneva delle armi. Ma Felline non mi aveva detto niente del sequestro. Neppure quando mi portò in macchina davanti alla casa dei Troffa mi accorsi di quello che stava accadendo. O meglio. Me ne resi conto il giorno dopo, quando lo lessi sui giornali. E lui mi minaccio. Disse che mi aveva coinvolto direttamente nel rapimento in modo che non lo potessi accusare. Aggiunse che non voleva farmi male in, alcun modo. Che non volava perdermi a nessun costo ma che se io avessi riferito quanto sapevo la avrei pagata cara. Avrebbe ucciso i miei figli". Antonio Felline, invece, non ha alcuna voglia di parlare. Nel primo interrogatorio fa mettere a verbale:

"Mi fa ridere l'idea che la mia carcerazione sia legata alle affermazioni fatte da Gregoriani e mi fa pensare quanto sia fallace la giustizia degli uomini. Vivo un romanzo allucinante. Certo che tra le persone coinvolte ci può essere qualche colpevole, ad incominciare da Gregoriani".

Poi, messo a confronto col il suo accusatore, ammette: "Per quanto riguarda il sequestro Troffa ho avuto una parte, ma molto limitata. Non ho infatti preso parte al rapimento materialmente ne ho partecipato alla custodia dell'ostaggio. Il mio compito, così come era stato concordato, era solo quello di partecipare agli abboccamenti con gli emissari della famiglia Troffa. Con me dovevano esserci Mario Marcello, Gonario Mureddu e Luciano Gregoriani".

Il fascicolo Troffa si arricchisce ancora quando Salvatore Cassitta (indicato come uno dei due latitanti che custodivano Pupo Troffa) decide di consegnarsi alla giustizia. Nella sua cella risponde così alle domande del magistrato: "Non è vero che abbia preso parte al sequestro Troffa. Durante tutto il tempo in cui si e protratta la mia latitanza sono rimasto a casa mia. Ho non meno di cinquanta o sessanta testimoni". Non confessa ma sembra inchiodato dalle dichiarazioni di Luciano Gregoriani. Che ha deciso di vuotare non uno ma più sacchi. Ed ha ancora molte cose da raccontare. Ha partecipato ad altri rapimenti, è stato uno dei cervelli della "Superanonima". Ha una memoria di ferro. Prima la usava per immagazzinare i dati relativi ai conti in banca delle sue possibili vittime. Adesso deve farne un uso meno piacevole.