Si tratta di un
mondo questo che merita di essere attentamente esplorato e
che spesso, o meglio quasi sempre fino ad ora, è
stato relegato ad una realtà pseudo romanzesca, quasi
romantica, popolata di "buoni intermediari", di "amici" il
cui unico scopo "è il bene del se questrato".
In realtà
attraverso la "zona grigia" dei sequestri di persona non
è infrequente approdare a diverse realtà
sociali, che hanno particolari attinenze con il mondo di una
certa imprenditoria sarda.
Altre circostanze,
emerse nella vicenda del sequestro Melis, merita no di
essere ricordate.
Il dottor Bardella,
dirigente della Digos di Cagliari, durante l'audizione,
davanti al Comitato, del 25 maggio dichiara: "mi sono trovato a
dover condurre cinque indagini che nascevano l'una
dall'altra come scatole cinesi, ma i personaggi che venivano
fuori erano sempre gli stessi, tra loro collegati e
accomunati da interessi politici-imprenditoriali anche
personali... queste persone, interessate allo svolgimento di
quelle pratiche imprenditoriali (lavori pubblici a
Capoterra, progetto Arbatax 2000, acquisizione Marsilva
n.d.r.), del livello che ho descritto, sono riemerse
nell'ambito delle vicende del sequestro Melis, soprattutto
per la parte che riguarda il pagamento del
riscatto". Ancora il
dottor Bardella dice "il sequestro di persona in Sardegna
è un coagulante di situazioni, che vanno dal mondo
dell'imprenditoria al mondo degli interessi personali e
professionali. Vi sono personaggi di spicco in Sardegna che
hanno rapporti con personaggi del mondo della malavita e
contemporaneamente del mondo politico-finanziario.
L'avvocato Piras è uno di questi, a lui ci si rivolge
per tante questioni e il suo nome compare puntualmente ad
ogni sequestro di persona".
Poter infatti
adoperarsi per risolvere situazioni le più varie,
compresi o forse soprattutto i sequestri di persona,
costituisce una credenziale formidabile per la
società isolana. Quelli che anche il dottor Bardella
chiama "intermediari di professione" aspirano, o svolgono in
effetti, questo ruolo di collante di tanti settori, in
particolare di quello imprenditoriale-affaristico, della
società sarda, e l'accreditarsi come risolutore, se
non addirittura, a scopo intimidatorio, ideatore di un
sequestro, costituisce un grande mezzo di condizionamento e
di prevalenza sociale. E in questo senso che da più
parti - dalla Calabria alla Sardegna - ci sono giunte
sollecitazioni a considerare, non solo come teorico, il
fenomeno di sequestri-lampo, o addirittura anche solo
minacciati o temuti.
Le vicende economiche sarde,
alcune delle quali, come ad esempio quelle precedentemente
citate, oggetto di indagini giudiziarie, sono fortemente
connesse con alcuni casi di sequestro di persona, ad esempio
con il caso Melis, sia per le persone coinvolte che per i
territori in cui si svolgono i diversi avvenimenti, che per
le appartenenze di molti dei protagonisti a comuni circoli
massonici. E sono connesse a tal punto da far ritenere che
ci si potrebbe trovare di fronte ad una evoluzione della
criminalità sarda, che finora si era applicata
prevalentemente ai sequestri, e che ora potrebbe essere
utilizzata altrimenti da certi ambienti, il cui collante
è l'appartenenza a circoli segreti o riservati e
l'obiettivo il condizionamento politico-affaristico
dell'isola. E inoltre meritevole di approfondimento anche la
recente massiccia campagna intimidatoria, messa in atto
contro molti amministratori locali mediante attentati
dinamitardi, per individuarne i reali obiettivi e le
eventuali finalità, probabilmente non solo criminali
ma anche eversive.
Il dottor Valerio
Cicalò della Procura di Cagliari, in un recente
articolo per la rivista "Società Sarda"
scrive
"la matrice
culturale (dei sequestri n.d.r.) è agro-pastorale,
sempre più saldamente legata con la
criminalità urbana e con i trafficanti di droga. Il
frutto del riscatto è spesso destinato ad
investimenti nella droga".
Stiamo quindi
assistendo ad un'evoluzione definitiva del mondo dei
sequestri di persona? I tradizionali investimenti in beni
immobili, in incrementi del patrimonio agricolo e pastorale
lasciano il posto ad acquisti di droga ed armi?
Naturalmente, se così fosse, questa evoluzione non
potrebbe avvenire senza il coinvolgimento della
criminalità sarda di tipo urbano, quella
tradizionalmente legata ai clan siciliani di "Cosa nostra".
A saldare questa
unione, a suggellare questo possibile legame tra due mondi
da sempre separati, non è sufficiente però
ritrovare coinvolti sequestratori storici, oggi in affari
con corrieri della droga provenienti dall'Olanda e da altri
paesi europei.
E verosimile pensare
che esista un livello superiore di garanzia, che è
quello appunto che mirerebbe a condizionare comunque e
dovunque lo sviluppo economico-sociale e financo politico
nell'isola?
L'esportazione
all'estero della figura istituzionale dell'intermediario,
come è avvenuto in Libia nel caso Sarritzu, disvela
anche scenari di possibili rapporti economici internazionali
tra questi ambienti e Stati stranieri degni di ulteriore
approfondimento.
Le indagini condotte
dal pool della Procura di Palermo sul caso Melis, che hanno
indicato il coinvolgimento di personaggi come l'avvocato
Piras, l'editore Grauso e il magistrato cagliaritano dottor
Lombardini, e che in maniera così drammatica
nell'agosto di quest'anno sono piombate nella cronaca del
nostro Paese, aprono importanti scenari.
Questi stessi scenari sono
resi particolarmente inquietanti da altri episodi, come
quello di cui parla Carlo Soffiantini nella sua deposizione,
e cioè di un contatto con la banda dei sequestratori
del padre garantito da un avvocato, di cui però non
rivela il nome. Intercettazioni telefoniche eseguite durante
le indagini di quel sequestro rivelano ripetuti colloqui tra
l'avvocato Piras e persone vicine alla famiglia Soffiantini,
i quali avrebbero anche stabilito un appuntamento in
Sardegna.
La successiva
proposta di Nicola Grauso di mettersi a disposizione della
famiglia Soffiantini, quale mediatore per la liberazione del
padre, riporta, in quella vicenda, un altro dei protagonisti
della indagine siciliana sul caso Melis, a dimostrare come
anche le vicende Melis e Soffiantini abbiano più di
un punto in comune.
Del resto la stessa
attività di questo Comitato della Commissione
antimafia è stata oggetto di interesse e
preoccupazione da parte di un altro dei protagonisti
dell'inchiesta diretta dal dottor Aliquò.
Risulta infatti che il
dottor Lombardini ha concordato con il colonnello Rosati,
audito dal Comitato il 25 maggio, le modalità e i
contenuti di quanto egli avrebbe dovuto dichiarare circa
vicende del passato al Comitato e, subito dopo l'audizione,
ne ha raccolto il racconto dettagliato.
Il colonnello Rosati ha
rivelato uno spaccato di quello che avveniva prima della
legge sul sequestro dei beni, relativamente alle trattative
per il pagamento del riscatto e che vedevano coinvolti
magistrati e ufficiali di polizia giudiziaria in ruoli di
primo piano, ma completamente occulti rispetto alle indagini
ufficiali.
Infatti, contrariamente a
quanto affermato dal colonnello Rosati, che partecipa
personalmente al pagamento del riscatto per la liberazione
della giovane Esteranne Ricea, a Firenze nel 1988, il dottor
Fleury, che conduceva l'inchiesta, non venne messo al
corrente di tale attività. Le indagini si conclusero
con la liberazione dell'ostaggio, senza che gli inquirenti
fossero ufficialmente a conoscenza di un pagamento del
riscatto.
Questo episodio che vede
protagonista il colonello Rosati - il quale, su sua
richiesta, non fa più parte dell'Arma dei carabinieri
- ed altri ancora cui lo stesso colonello durante
l'audizione davanti al Comitato ha accennato, disvelano uno
scenario molto particolare relativamente al mondo dei
sequestri sardi, e che l'inchiesta palermitana sul caso
Melis sta lentamente cercando di chiarire.
Appare assumere sempre
più consistenza l'idea che si sia costituita una
forma di "rete" in Sardegna di informatori, di mediatori, di
non meglio precisati collaboratori che a vario titolo, con
le più disparate motivazioni personali, per una sorta
di aggregazione spontanea, si metteva in moto ed operava
attivamente ad ogni episodio di sequestro di persona. Questa
rete, verosimilmente, non è costituita in forma
stabile o formalmente organizzata, e tuttavia era
attivamente operante di volta in volta e quando se ne
avverte la necessità. Proprio il proeuratore di
Palermo Giancarlo Caselli nel corso dell'audizione del 9
settembre ha definito questo meccanismo una rete, che
attiene e si collega a quella che la Commissione antimafia
ha definito "zona grigia" e che aveva quale punto di
riferimento il dottor Lombardini. Questi per tanti anni,
durante il periodo caldo dei sequestri, dalla metà
degli anni settanta alla metà degli anni ottanta,
ebbe a gestire in "maniera quasi esclusiva", per dirlo con
il dottor Mura, tutti i casi di sequestro di persona in
Sardegna. In questo periodo si ottennero effettivamente
importanti risultati nella lotta ai sequestri ed il dottor
Lombardini si conquistò, come si dice, sul campo, la
fama di abile investigatore, la stima di tanti
collaboratori, ma soprattutto riuscì ad intessere
stretti rapporti e conoscenze con il mondo criminale, in
particolare barbaricino. Destinato ad altro ufficio,
tuttavia, il dottor Lombardini ha indubbiamente, pur non
avendone alcun titolo, continuato ad occuparsi di sequestri
di persona e proprio per aver ricoperto un ruolo attivo
durante il sequestro Melis veniva indagato dalla Procura di
Palermo.
Quale il ruolo di questa
rete che, come ha dichiarato in un'intervista uno dei suoi
appartenenti, quel Carboni che verrà poi arrestato a
Palermo, era organizzata dal dottor Lombardini? Quali erano
le solidarietà che la mantenevano in vita? A quale
scopo le persone più disparate, piccoli imprenditori,
geometri, pregiudicati, ufficiali dei carabinieri si
associavano tra loro e facevano riferimento particolare al
dottor Lombardini?
Le indagini in questo senso della Procura di Palermo sono
appena avviate e sono alla stadio di ipotesi di lavoro e
quindi è oggi impossibile effettuare una
ricostruzione di tutti questi aspetti che sia minuziosa ed
attendibile. Certo, numerosi fatti inquietanti si sono
verificati negli ultimi casi di sequestri in Sardegna, sui
quali il dottor Mura ha riferito al Comitato, come ad
esempio una fuga di notizie durante una delle fasi cruciali
del sequestro Vinci, per cui il nome del mediatore, che la
famiglia aveva individuato per trattare con i sequestratori,
venne pubblicato sui giornali e così bruciandolo.
Chi aveva saputo la notizia?
E chi l'aveva passata ai giornali?
Ed ancora, in un momento particolarmente drammatico del
sequestro Melis, sull'Unione Sarda comparve il titolo
"Momenti decisivi per il sequestro Melis", ma non un
articolo né in prima pagina né all'interno che
ne spiegasse le ragioni.
Che senso ebbe quel titolo? Molti sono i quesiti che gli
stessi inquirenti a Cagliari, che indagano sul sequestro
Melis, ed a Palermo si pongono, e solo il prosieguo delle
indagini potrà chiarirli. Certo è che
sistematicamente, ad ogni episodio di sequestro degli ultimi
anni si sono verificati depistaggi, indagini parallele,
manovre diversive ad opera di questa diffusa "zona grigia" e
che hanno costituito forte ostacolo all'opera della
magistratura. Tra le manovre diversive verosimilmente va
inquadrata, ad esempio, una fortissima campagna di stampa
condotta contro gli inquirenti della DDA di Cagliari,
accusati dalla famiglia - e ciò può anche
essere per certi versi comprensibile - ma in altri momenti
anche da rappresentanti delle istituzioni, di mettere a
grave rischio la vita degli ostaggi, applicando la legge.
L'intricatissima vicenda del caso Melis, del quale
volutamente, date le indagini in corso, non abbiamo compiuto
una minuziosa ricostruzione come invece per i casi
Soffiantini e Sgarella, sta a testimoniare di quanto diffusa
ed efficace sia questa "zona grigia" nel depistaggio delle
in dagini ufficiali.
Le indagini sul sequestro di Silvia Melis sono tuttora in
corso ed occupano sia la Procura di Cagliari, legittima
titolare, ma anche quella di Palermo, per quanto attiene
soprattutto alle fasi conclusive della liberazione della
giovane professionista di Tortolì. Queste sono ancora
lontane dall'essere concluse, ma certo è che in
questo caso, in maniera più clamorosa che in altri,
questa "rete" si è mossa pesantemente, ha
interferito, ostacolato con la precisa e deliberata
collaborazione della famiglia stessa che ha finito per
esserne strumentalizzata. Questa è ricorsa,
anziché ad una stretta collaborazione con gli
inquirenti, ad una solidarietà di certi ambienti,
soprattutto massonici, convinta com'era che solo questa
strada avrebbe portato alla liberazione di Silvia.
Quali, dicevamo, gli scopi di questa "rete" e a che titolo
gli associati si impegnavano in vicende così
intricate come i sequestri di persona?
Se per qualcuno si possono fare solamente delle ipotesi,
aspirazioni di carriera, malinteso attaccamento ad una
funzione un tempo ricoperta, frustrazioni personali, per
altri gli intenti sono pubblicamente dichiarati. Nicola
Grauso, in un'intervista rilasciata a "La Stampa" di Torino,
non ha difficoltà ad ammettere di essersi proposto
quale mediatore del caso Melis al solo scopo di ottenere
gratuitamente facile pubblicità. Se già questa
giustificazione suona come frutto di un mostruoso cinismo,
il fatto di averla poi sfruttata per un fine politico, per
costruire la base per un proprio movimento politico, da una
parte trasforma la vicenda in una inquietante operazione di
manipolazione del consenso e dagli sviluppi potenziali,
oscuri e pericolosi, e dall'altra costituisce una seria
fonte di rischio per l'incolumità dello stesso
ostaggio. Lo stesso imprenditore del resto, forte forse di
qualche solidarietà personale, arriva a promettere,
come ha confermato il dottor Di Leo del la Procura di
Palermo, a Silvia Melis una forma di rimborso del riscatto
pagato, mediante una serie di apparizioni in esclusiva sulle
televisioni del circuito Mediaset. Fatto che puntualmente si
realizza e che si interrompe solo quando Silvia Melis,
insospettita sul reale andamento delle fasi finali del suo
sequestro e sul ruolo di Nicola Grauso, non decide di
tralasciare questa sua esposizione sui media. E facile
ritenere, in conclusione, che quello che la tradizione,
accreditata anche da tante istituzioni pubbliche,
considerava un fenomeno criminale relegato al mondo
agro-pastorale, ad un mondo quindi di subalterni, di
economia elementare, in realtà ha oggi altri livelli
di azione e di sviluppo. Del resto non si spiegherebbe
altrimenti la possibilità, ventilata da tanti
esponenti anche di rilievo delle istituzioni sarde, di una
trattativa diretta, economica, da parte dello Stato con, ad
esempio, alcuni latitanti. Dichiararsi disponibili a
trattare la costituzione del latitante da parte di alcuni di
coloro che questa latitanza dicono di voler combattere,
significa che se ne riconosce per certi versi la
legittimità fino a poterla trattare economicamente,
quasi fosse una prerogativa, una professiona lità
commerciabile.
Non crediamo sia azzardato
oggi ipotizzare che si starebbe consolidando in Sardegna una
forma di "vertice gestionale" di una certa economia, di una
certa politica, di una certa imprenditoria, di cui anche i
sequestri di persona possono far parte e che vedrebbero nel
controllo di ambiziosi progetti economici e nell'adesione a
comuni circoli anche massonici dei protagonisti, il loro
collante, la loro ragione sociale. Resta a questo punto da
chiedersi se questo supposto vertice gestionale, questa
"rete", questa "zona grigia" siano sempre state e intendano
operare solo entro i confini dell'isola o, come nel passato,
cerchino di esportare in Continente la propria sfera di
azione. In questo senso la comparsa, nel caso del sequestro
Soffiantini, di un uomo come il generale Delfino, che a
vario titolo si era occupato di casi di sequestri di persona
solo di matrice calabrese, e per alcuni dei quali fu
sottoposto ad indagine dalla DDA di Milano, potrebbe aprire
ulteriori spunti di approfondimento. Come poteva il generale
Delfino proporsi quale mediatore presso i sardi per
Soffiantini?
Attraverso quali canali pensava di operare?
Si potrebbe ipotizzare uno stretto rapporto, testimoniato
peraltro da una conoscenza certa e da contatti tra i due
proprio in costanza del sequestro Soffiantini, tra
Lombardini e Delfino quali possibili comuni appartenenti a
centrali segrete e/o a Servizi di sicurezza. D'altra parte
inquieta l'episodio del coinvolgimento di due ufficiali dei
carabinieri di Brescia, il capitano Acerbi e il tenente
colonnello Pinto, nell'inchiesta Delfino, coinvolgimento che
a sua volta è difficile ritenere casuale.
La rete sarda e le sue
propaggini in Continente sono l'espressione di una tendenza
all'autosufficienza tipica del mondo sardo, derivante
dall'atavico isolamento e distanza dallo Stato centrale, o
sono invece uno strumento usato in maniera spregiudicata dai
vari apparati, che così affrontano e risolvono con
tornaconti personali non necessariamente sempre economici
casi clamorosi e di grande valenza sociale quali i sequestri
di persona?
Quest'ultima ipotesi potrebbe fare giustizia di quella che,
in altra parte della relazione, abbiamo chiamato "tradizione
popolare" e che ascrive ai Servizi un ruolo attivo in alcuni
casi di sequestro del passato. Episodi come il caso
Lombardini e il caso Delfino starebbero a di mostrare come,
a differenza del passato, oggi le istituzioni siano in grado
di mettere in luce deviazioni e sanzionarle. Certo è
che, al fine di approfondire tutta questa materia,
sarà indispensabile che il Comitato continui ad
operare seguendo da vicino gli sviluppi delle indagini di
Cagliari, Brescia, Palermo e Milano.