La conclusione
dei sequestri di Silvia Melis e di Giuseppe Soffiantini ha
riaperto una discussione pubblica su tre punti particolari:
la validità e l'efficacia della legge 82/91, la
controversa figura dell'emissario e la legislazione premiale
per i detenuti condannati per il delitto di sequestro di
persona a scopo di estorsione. Il Comitato ha avuto
l'opportunità di ascoltare, su questi argomenti,
opinioni e pareri diversi che traevano origine dalla diversa
esperienza e sensibilità degli interlocutori. Se la
maggior parte degli auditi ha apprezzato i risultati
ottenuti e il calo del numero dei sequestri che molti hanno
ritenuto essere una delle conseguenze della legge, altri ne
hanno criticato alcuni aspetti, suggerendo delle parziali
correzioni, altri ancora ne hanno chiesto una radicale
modifica mettendo in discussione gli aspetti centrali della
legge stessa.
L'apprezzamento più
netto è venuto da quasi tutti i componenti dei
Comitati provinciali per l'ordine e la sicurezza pubblica,
mentre opinioni diverse e a volte contrastanti sono emerse
tra i magistrati auditi e tra gli ex sequestrati.
Una delle ragioni
che aveva spinto il legislatore del 1991 ad approvare la
legge che obbligava il magistrato a bloccare i beni nella
disponibilità del sequestrato e dei suoi familiari
conviventi, stava nel fatto che si riteneva necessario
impedire ogni discrezionalità in capo al magistrato
procedente che fino a quel momento era stato libero di
decidere, sulla base delle sole convinzioni personali in
rapporto al sequestro che stava trattando, se bloccare o
meno i beni. Ne erano-nate annose discussioni tra i fautori
della cosiddetta linea "dura" e quelli della cosiddetta
linea "morbida", cioè tra magistrati che decidevano
di bloccare i beni, pur in assenza di una vincolante
prescrizione di legge, e magistrati che decidevano di non
farlo. Questo comportamento difforme e opposto aveva creato
non pochi turbamenti e drammi nei familiari delle vittime e
aveva aumentato una ricorrente polemica attorno a sequestri
che la stampa definiva, con indubbia efficacia, sequestri di
serie A e sequestri di serie B, cioè sequestri che
richiamavano l'attenzione della grande stampa nazionale - e
per i quali si faceva di tutto per ottenere la liberazione
dell'ostaggio compreso, come si sospettò, il
pagamento del riscatto da parte di uomini degli apparati
dello Stato - e sequestri che invece erano da tutti
ignorati, come se non fossero mai esistiti.
I fautori della
linea "morbida" erano convinti che qualsiasi intervento
dell'autorità giudiziaria potesse compromettere la
vita dell'ostaggio, per cui si ritenne che la migliore via
fosse quella del non intervento durante la permanenza
dell'ostaggio nelle mani dei sequestratori. Le cose
cominciarono a cambiare quando non tutti i sequestrati
facevano ritorno a casa nonostante i riscatti fossero stati
pagati.
Prima timidamente e
poi con più nettezza, diverse autorità
giudiziarie iniziarono delle attività di intervento a
partire dalla fase iniziale del sequestro.
Il clima di quegli
anni è stato così sintetizzato dal dottor
Fleury:
"In
Toscana abbiamo vissuto una fase in cui i sequestrati non
tornavano più a casa. Questi fatti hanno in qualche
misura condizionato il nostro modo di agire nei sequestri
successivi. In alcuni sequestri l'ostaggio non è
stato rilasciato ed è stato soppresso. Il riscatto
è stato pagato lo stesso e soltanto dopo si è
saputo che l'ostaggio era stato soppresso. Dopo queste prime
esperienze in cui la magistratura aveva lasciato alla
famiglia del sequestrato ampio margine di libertà nel
condurre la trattative ed evitando indagini per non
disturbare le stesse - e in cui, ripeto, i sequestri si
erano conclusi così tragicamente - si è
cominciato a pensare a metodologie diverse. Già a
partire dalla prima metà degli anni Settanta, sulla
base della normativa vigente all'epoca e ad una sua
interpretazione un po' forzata, abbiamo iniziato ad
applicare il blocco dei beni e, più spesso ancora, il
sequestro delle somme che la famiglia destinava al pagamento
del riscatto, oltre ad un intervento delle forze di polizia
tendente ad intercettare i rapitori nel momento della
riscossione del riscatto. Questo tipo di metodologia ha
avuto in Toscana dei risultati positivi in quanto si sono
cominciati a scoprire gli autori dei sequestri di persona.
Non
vi sono state conseguenze negative per gli ostaggi salvo
forse il fatto che in certi casi si è prolungata la
durata del sequestro".
La scelta della Procura
della Repubblica fiorentina ha fatto sì che i
sequestri si spostassero nella vicina Emilia-Romagna nella
speranza che in quella regione i magistrati adottassero una
linea di intervento meno rigida. Il questore di Nuoro,
dottor Giacomo Deiana, ha ricordato come prima
dell'approvazione della legge lo Stato era stato messo nelle
condizioni di piegarsi di fronte al ricatto e la polizia era
costretta ad "assistere, a far quasi da notaio all'evolversi
delle trattative".
In definitiva la
scelta del non intervento da parte degli inquirenti induceva
a consolidare la convinzione che il sequestro fosse un fatto
privato tra famiglia del sequestrato e sequestratori; tra
questi due soggetti - e solo tra loro - doveva svolgersi una
trattativa privata che aveva come elemento centrale un
baratto: la libertà della vittima in cambio del
pagamento; una compravendita con chi usando la violenza si
era appropriato di un bene - la vita dell'ostaggio - che
apparteneva a chi per riappropriarsene era costretto a
pagare. Il dottor Sandro Federico, attualmente questore di
Grosseto, che in passato ha seguito direttamente numerosi
sequestri in Sardegna e in Toscana, ha rilevato che
"il
sequestrato viene considerato dai banditi un bene; purtroppo
diventa un oggetto con un suo valore. Quindi la trattativa
per un sequestro di persona diventa in realtà una
compravendita". La
persona, nelle mani dei sequestratori, si trasforma in una
merce, in un mero strumento di baratto. E ciò a volte
crea un particolare stato d'animo in chi subisce il
sequestro. Non a caso Giuseppe Vinci ha affermato
che
"sentirsi oggetto di scambio, strumento di ricatto di questo
tipo è davvero umiliante, è una
mortificazione".
Lo Stato non doveva
intromettersi in questa trattativa privata, non poteva
agire; al massimo poteva fungere da notaio. Che i
sequestratori abbiano inteso il sequestro nei termini di una
trattativa privata è cosa nota. Lo testimoniano i
racconti degli ex sequestrati quando parlano delle reazioni
dei loro carcerieri alle notizie che i familiari delle
vittime intrattengono rapporti con gli inquirenti. Silvia
Melis ha notato:
"La
prima cosa che loro chiedono è proprio quella,
cioè che non si mettano a conoscenza le forze
dell'ordine. La cosa che di più li innervosisce
è quando la famiglia collabora con le forze
dell'ordine".
I sequestratori a volte
reagiscono anche alle mobilitazioni estreme. Cesare Casella
ha raccontato delle reazioni dei suoi carcerieri dopo il
clamoroso viaggio in Calabria di sua madre. Le iniziative
della signora Casella ebbero una vastissima eco sulla stampa
e su tutte le televisioni.
Ha detto Cesare
Casella:
"Si
notava che questo episodio dava loro fastidio perché
c'è stato un cambiamento di umore... Erano
indispettiti del fatto di vedere i loro paesi e le loro case
fotografati sui giornali e sono andati fuori di
testa".
Anche a Bovalino ci furono
numerose mobilitazioni per la liberazione di Adolfo
Cartisano. Su iniziativa dei giovani del luogo si costitui
un largo fronte antisequestro in un paese di 8.000 abitanti
che - come ha ricordato Giuseppe Cartisano - ha subito 18
sequestri di persona. Non si sa come abbiano reagito i
sequestratori perché purtroppo Adolfo Cartisano non
ha più fatto ritorno a casa.
Negli ultimi anni sono
andate via via aumentando le iniziative pubbliche a sostegno
dei sequestrati di cui si chiedeva il rilascio. Le ultime si
sono verificate durante i sequestri Melis e Soffiantini.
Esse sono attestazioni di solidarietà che aiutano le
vittime e i loro familiari. Sono anche il segno che il
sequestro di persona comincia a toccare vasti strati di
popolazione che prendono a considerare il sequestro come un
fatto che riguarda tutti e non più come un fatto
privato relegato nella sfera dei rapporti tra familiari e
sequestratori. Il sequestro, così, appare per quello
che è: un delitto odioso che colpisce l'intera
comunità e non soltanto le vittime occasionali di
quel determinato momento. Tra l'altro questo tipo di
manifestazioni sono importanti anche per un altro motivo:
creano una cultura diversa da quella finora prevalente,
sottraggono consenso ai sequestratori e li isolano nella
coscienza pubblica. La discrezionalità dei magistrati
venne interrotta dall'entrata in vigore della nuova legge. E
comprensibile che ciò abbia prodotto nell'immediato
una reazione dei familiari delle nuove vittime che si
tramutava in una serie di difficoltà nei rapporti tra
gli inquirenti e le famiglie. Ecco come ha descritto la
situazione il dottor Mura:
"Da
allora non c'è dubbio che progressivamente il
rapporto tra la famiglia del sequestrato, le forze di
polizia e le autorità giudiziarie è andato
progressivamente logorandosi. Il sequestro di un membro di
una famiglia di sardi certamente amplifica moltissimo questa
situazione di conflitto, questa situazione di tensione,
questa scarsa fiducia, perché si parte dalla premessa
che tanto il sequestrato, l'ostaggio, non potrà
tornare se non si paga il riscatto; siccome il riscatto non
si può pagare, siccome l'emissario non si può
indicare ufficialmente, o subito, o dopo qualche tempo i
rapporti con le forze di polizia si troncano, salvo poi
cercare di mantenere il rapporto fiduciario con qualche
elemento della polizia o dei carabinieri".
A complicare il rapporto tra
familiari e inquirenti è stata anche la radicata
convinzione che vi fossero obiettivi diversi proprio tra
familiari e vittime.
L'avvocato Giuseppe
Frigo, difensore di fiducia della famiglia Soffiantini, ha
così sintetizzato la situazione:
"Bisognerebbe cercare di capire che gli
obiettivi della famiglia del sequestrato possono essere
diversi rispetto a quelli degli inquirenti. Questo
però è un male che dovrebbe essere rimosso,
perché se la scala dei valori è diversa si
crea necessariamente un attrito. La scala dei valori
dovrebbe essere la stessa. Sicuramente la famiglia vede al
primo posto di questa scala la vita e la libertà del
familiare, mentre qualche volta gli inquirenti vedono al
primo posto l'individuazione e la cattura dei
responsabili".
Anche Giuseppe Vinci ha
sottolineato questo aspetto:
"l'obiettivo delle famiglie è
riportare a casa il sequestrato, il rapito; quello delle
forze dell'ordine è anche questo, ma soprattutto
impedire che vengano organizzati altri sequestri; quindi si
discostano un po'".
Al di là dei
contenuti della legge, ciò che in moltissimi casi ha
determinato una vera e propria crisi di fiducia tra
familiari delle vittime e inquirenti è stata da una
parte la fuga di notizie riservate che ha rischiato di
mettere in pericolo la vita dell'ostaggio, dall'altra la
qualità delle indagini e la professionalità
degli inquirenti che non sempre è stata adeguata,
persino sul piano della sensibilità umana nei
confronti dei familiari delle vittime che vivevano un dramma
sicuramente sconvolgente.
Di fuga di notizie hanno
parlato Silvia Melis, Giuseppe Vinci, Giuseppe
Soffiantini.
Essi hanno raccontato
episodi che segnalano come le lettere da loro inviate o
altre notizie segrete erano di dominio pubblico e venivano a
conoscenza dei loro sequestratori.
Quanto alla
qualità delle indagini la signora Giovanna Ielasi
Medici ha affermato:
"c'è stato un momento in cui non
sapevo chi erano i veri nemici. Erano i
sequestratori?".
La signora Audinia
Marcellini Conocchiella ha detto:
"nei
rapporti con la magistratura e le forze dell'ordine sono
stata particolarmente sfortunata" e ha descritto una serie di divergenze tra le
forze dell'ordine e tra queste e la magistratura
caratterizzate anche da un reciproco clima di sfiducia; il
Procuratore della Repubblica di Vibo Valentia la convoca a
casa sua - "non ho ben capito
perché" - e le
dice:
"non
parlare con nessuno, non ti fidare di nessuno, dei
carabinieri, della polizia, della guardia di finanza; devi
parlare solo con me".
Giuseppe Cartisano ha detto:
"Durante gli interrogatori siamo stati
trattati come delinquenti". La signora Fausta Rigoli Lupini è
convinta che nel suo caso "le indagini non sono state
condotte bene".
Francesco Falletti
ha espresso in questi termini la sfiducia nei confronti
delle forze dell'ordine:
"Non
denuncerei il sequestro di mio figlio perché dalle
forze dell'ordine posso ottenere solo disturbi ma non
aiuti".
Anche Silvia Melis
ha parlato di contrasti insorti tra gli inquirenti e la sua
famiglia che si è sentita "tradita" perché - a suo dire - una lettera
indirizzata al padre e da questi consegnata alla polizia
dopo due giorni sarebbe apparsa sui giornali.
E evidente che tali
racconti, in parte probabilmente esagerati dato il
coinvolgimento emotivo e il mancato ritorno a casa dei loro
cari - circostanza, questa, rimarcata dal prefetto di Reggio
Calabria dottor Rapisarda -, sollevano in ogni caso il
problema della sensibilità degli investigatori e
della qualità delle indagini.
Non tutti hanno vissuto
un'esperienza negativa, e non sempre i rapporti tra
familiari e inquirenti sono stati conflittuali o
caratterizzati dalla sfiducia. L'esperienza fatta in Toscana
- è l'opinione del procuratore aggiunto Fleury -
è stata della "massima collaborazione da parte dei
familiari dei sequestrati" nel periodo precedente all'approvazione della
legge.
"Molto spesso i familiari dei sequestrati hanno mostrato
gradimento per il blocco dei beni, anche perché
dicevano che questo serviva loro per abbassare il prezzo; se
non altro si può avere questo effetto
favorevole".
A Brescia i rapporti
tra i familiari di Giuseppe Soffiantini e gli inquirenti
sono stati positivi. Il dottor Alberto De Muro, prefetto di
Brescia, li ha definiti "rapporti di collaborazione piena, quasi di
amicizia tra la famiglia e gli organi
inquirenti". Il questore
di Brescia, dottor Gennaro Arena, ha così descritto
la situazione:
"Si
è stabilito un rapporto personale, amichevole, tra
Carlo Soffiantini, il capo della squadra mobile ed il
comandante del gruppo dei carabinieri... La famiglia era
quotidianamente informata, per quello che si poteva, degli
sviluppi delle indagini e sentiva che la tensione degli
investigatori era simile a quella della famiglia stessa. Il
Capo della mobile era quasi diventato un fratello per Carlo
Soffiantini, per cui il raggiungimento di un risultato
positivo era voluto allo stesso modo da entrambi".
L'avvocato Frigo ha
confermato "la totale collaborazione della famiglia
Soffiantini con lo Stato, quindi con le forze dell'ordine,
polizia, carabinieri e magistratura". Carlo Soffiantini, riferendosi agli inquirenti
ha aggiunto:
"devo dire che tutte le persone che abbiamo
conosciuto avevano notevole spessore, capacità ed
esperienza".
Anche a Milano, nel
corso del sequestro Sgarella, sembra esserci stato un
rapporto di collaborazione tra familiari ed inquirenti.
Secondo il questore di Milano, dottor Marcello Carmineo,
"i
rapporti sono ottimi. Finora la famiglia ha fornito la
massima e più completa collaborazione; è in
stretto contatto con il pool investigativo e su questo
terreno fino ad ora non ci sono stati problemi né
sbavature di alcun tipo. Praticamente la collaborazione
è stata massima".
Anche il dottor
Nobili ha definito "decisamente eccezionali" i rapporti con la famiglia
Sgarella.
Il Comitato ha ascoltato
critiche ed apprezzamenti sulla legge 82/91. Era inevitabile
che così fosse, data la delicatezza della materia
trattata e la discussione pubblica sviluppatasi dopo gli
ultimi sequestri, in particolare quelli di Silvia Melis e di
Giuseppe Soffiantini. I verbali delle audizioni sono ricchi
di riflessioni, di spunti, di suggerimenti, di suggestioni.
Per una esatta valutazione di quanto è emerso nel
corso dei numerosi incontri è opportuno richiamare la
principali argomentazioni espresse in merito ai problemi
sollevati.
I critici della legge
sostengono sostanzialmente tre argomenti:
1) il blocco dei beni è
questione che i sequestratori non tengono in alcun conto
perché sono preparati ad affrontare lunghi mesi di
custodia dell'ostaggio. La legge è anche inutile
perché il blocco dei beni è comunque aggirato
dai familiari che, in un modo o in un altro, riescono a
trovare i soldi per pagare il riscatto. Di questa tesi si
è fatta portatrice, fra gli altri, Silvia
Melis;
2) con il blocco dei beni l'effetto
più sicuro è quello del prolungamento dei
tempi del sequestro. Hanno sostenuto questa opinione, fra
gli altri, il Procuratore della Repubblica di Nuoro,
l'avvocato Cualbu e Francesco Falletti che ha detto:
"il
mio sequestro si sarebbe potuto risolvere dopo un paio di
mesi invece che dopo sei, pagando tra l'altro una cifra di
gran lunga inferiore a quella poi effettivamente pagata,
cioè 200 milioni. Fui sequestrato a luglio e
già alla fine di settembre si erano messi d'accordo;
ma poi intervenne il blocco dei beni per cui la mia
liberazione avvenne soltanto dietro pagamento di un riscatto
maggiore e dopo un periodo più lungo. Questa e la mia
esperienza personale".
3) il blocco dei beni produce un
effetto immediato che e quello di "porre gli inquirenti
innanzitutto contro la famiglia e la famiglia diventa il
nostro secondo nemico".
E questa la tesi sostenuta, tra gli altri, dal dottor
Pennisi, sostituto procuratore della Repubblica di Reggio
Calabria, secondo il quale l'effetto della legge in Calabria
sarebbe stato "nefasto".
Accanto a questi argomenti,
che sono quelli prevalenti, ne sono emersi altri che
è utile riportare. Il dottor Chessa, procuratore
della Repubblica di Nuoro, ha sollevato un problema
più di fondo, quello della contraddizione tra due
beni che non sono tutelati alla stessa maniera: il bene
patrimoniale e la libertà personale:
"vale la pena di allungare il sacrificio di
un bene importante, quale la libertà personale,
sperando che forse non possa essere pagato il riscatto?
Ne
vale la pena?
Noi
cioè dobbiamo chiederci tra i due valori, la vita e
il patrimonio, quale è quello prevalente.
E
quello della vita?
E
quello della libertà personale?
Qualunque sia la rubricazione codicistica di
- questo reato, che è inserito come sappiamo tutti -
nell'ambito dei reati contro il patrimonio, pregiudica un
altro interesse, costituzionalmente garantito molto
più di quanto non siano gli interessi patrimoniali,
quello alla libertà personale, che è un
interesse prevalente".
L'avvocato Cualbu, presidente dell'Ordine forense di Nuoro,
ha anche affermato che se anche si dovesse eliminare il
blocco dei beni, ciò non avrà come conseguenza
l'aumento del numero dei sequestri. Francesco Falletti ha
dichiarato che il blocco dei beni è un provvedimento
anticostituzionale, inefficace, antigiuridico, assolutamente
illiberale e immorale.
Di parere opposto
sono le opinioni di molte altre persone - e sono la grande
maggioranza - ascoltate dal comitato. Il dottor Guglielmo
Palmeri, magistrato della DNA, e il prefetto Monaco, vice
capo della polizia e direttore della polizia criminale,
hanno insistito sul fatto che la legge, scegliendo la linea
"dura", ha avuto come effetto la diminuzione del numero dei
sequestri; e dunque sarebbe un errore modificarla.
L'opinione del
dottor Mura, sostituto procuratore della DDA di Cagliari,
è che "la misura del blocco dei beni possa e debba
essere mantenuta, in termini obbligatori e non
discrezionali, ma penso anche che il pagamento del riscatto
debba essere previsto non più soltanto per
l'individuazione dei responsabili, ma semplicemente come
unica misura per arrivare alla liberazione
dell'ostaggio". Il
magistrato, riferendosi all'opinione che il blocco dei beni
porti al prolungamento della durata del sequestro, ha
aggiunto:
"è assolutamente falso che il blocco
dei beni allunghi il periodo della cattività. Posso
infatti indicare tantissimi sequestri in cui vi è
stata una cattività lunghissima anche senza che si
ricorresse al blocco dei beni. Intendo ad esempio riferirmi
al sequestro di Salvatore Troffa, un ricco commerciante
sassarese, sequestrato nel novembre 1978 e rilasciato nel
luglio dell'anno successivo dopo il pagamento di ben 800
milioni di allora: in quel caso non vi era assolutamen te il
blocco dei beni".
Ancora il dottor
Mura ha affermato:
"personalmente penso che la normativa sul
blocco dei beni non debba essere modificata, cioè che
non debba essere introdotta una facoltatività del
provvedimento: il blocco o c'è o non c'è... Il
problema fondamentale è che si deve passare da una
concezione privatistica, o tendenzialmente privatistica,
della lotta al sequestro di persona ad una visione
completamente diversa in cui è lo Stato che deve
farsene carico, così come per tutti i fenomeni
criminosi, e particolarmente per quelli che vengono
considerati da tutti come i fenomeni criminosi più
gravi e quindi che certamente attentano all'ordine pubblico
in misura pesante, facendo dello Stato il protagonista
fondamentale".
Anche il dottor Giuseppe
Porqueddu, procuratore della Repubblica di Sassari, si
è dichiarato "assolutamente favorevole al blocco dei beni
perché effettivamente lo Stato non può
lasciare la partita nelle mani del sequestratore e dei
familiari dei sequestrati". Giuseppe Vinci ha affermato:
"attribuire la responsabilità di
tutto questo alla legge è un po' sminuire
l'entità del problema".
Per Giuseppe
Soffiantini "dire che bisogna abolire questa legge mi
sembrerebbe troppo semplicistico". Anche Cesare Casella e sua madre sono
dell'opinione che il blocco dei beni vada mantenuto. Il
dottor Carlo Macrì, sostituto procuratore generale di
Catanzaro, ritiene che la legge ha "indubbiamente un valore di
remora per il compimento dei sequestri". Nel contempo ha sollevato un
problema di primaria importanza:
"un
provvedimento che impedisce in maniera rigorosa il pagamento
del riscatto deve presupporre la capacità dello Stato
di arrivare alla liberazione del sequestrato in tempi
congrui. Se lo Stato non ha la capacità di liberare
l'ostaggio in tempi brevi, cioè nel giro di alcuni
mesi, allora non vedo come si possa impedire in assoluto il
pagamento del riscatto".