TORINO - "Mando tutti i soldi che ho ai suoi genitori. Tutti i miei risparmi. Voglio salvare quel bambino. So che cosa si prova quando si è prigionieri. Nessuno meglio di me lo può sapere. Paura, paura e ancora paura...". Marco Fiora ha una vocina sottile ma decisa. Ha saputo di quanto accaduto al piccolo Faruk all' uscita di scuola, ascoltando casualmente una conversazione tra i genitori di un compagno di classe. Poche parole che gli hanno fatto rivivere l' incubo del suo sequestro. Marco Fiora ora ha dodici anni. Ne aveva appena sette la mattina del 2 agosto 1987 quando il "Fiorino" con cui i genitori lo stavano accompagnando a scuola fu bloccato dai banditi. Papà e mamma Fiora cercarono di lottare, ma furono ridotti all' impotenza. Il piccolo Marco fu ingoiato dal cassone di un camion e perse i sensi. Si risvegliò in una stanzetta, quasi una gabbia, illuminata da una sola lampadina appesa ad un filo dove avrebbe vissuto incatenato per 520 giorni prima di essere finalmente liberato il 2 agosto 1988. "Una stanza di quattro pareti, il soffitto piatto, con una porta sola e una finestra chiusa con una serranda fatta con traverse di legno - ricorda Marco -. C' era un letto, avvicinato ad un angolo con una catena legata ad uno dei piedi. Me l' hanno stretta al polso destro". Nella stessa camera c' era un lavandino "con il rubinetto che gettava acqua calda e fredda" e poi "un bidone di plastica per i bisogni". In quella tana nascosta a Ciminà, sull' Aspromonte, il piccolo Marco rimane per diciotto mesi, con una catena al polso, legato come un cane. "Per raggiungere quel bidone dovevo spostarmi sempre con la catena attaccata al letto - sussurra il bimbo -. Non ho mai sentito voci di donne o bambini. Dormivo vestito com' ero. Dopo aver mangiato sciacquavo io il bicchiere e i piatti. Il cibo me lo portava sempre la stessa persona. Quando entrava nella stanza dovevo abbassarmi sul volto un cappuccio che mi avevano dato". I rapitori gli danno da leggere fumetti e riviste per tenerlo buono ma non lesinano le botte. Lo battono senza pietà perché ha fatto rumore con il "bidone per i bisogni" o perché ha rotto un bicchiere di vetro. "Mi hanno picchiato ogni volta che ho chiesto di poter tornare a casa - aggiunge Marco -. E poi ripetevano sempre quelle cattiverie. Che mio padre aveva i miliardi, che era ricco ma che non voleva pagare per me, che teneva più al denaro che a me, suo figlio". Un calvario che dura sino al 2 agosto ' 88, quando all' improvviso i suoi carcerieri gli danno una merendina e lo fanno salire in auto. "Ero bendato ma ho sentito che facevamo un percorso con curve e salti. Quando mi hanno lasciato ho camminato un po' a quattro zampe e poi ho bussato ad una porta...". Quando lo riportano a Torino ha le gambe magre come stecchi per la prolungata immobilità e il volto duro perché i banditi lo hanno convinto che i genitori non volevano pagare il riscatto. Papà e mamma Fiora invece hanno pagato la "prima rata", 281 milioni consegnati durante un drammatico incontro con i banditi nel cuore della Calabria. Ci vogliono mesi prima che Marco sorrida di nuovo e ritrovi la fiducia nei genitori. Ora Marco Fiora frequenta la quinta elementare. Studia sodo perché ha l' esame. Ieri pomeriggio però non è riuscito ad aprire i libri. La notizia dell' orecchio tagliato a Farouk lo ha riportato in quella tana sull' Aspromonte e lo ha costretto a saltare le ore di studio. "Ho chiesto a mio padre di mandare subito i miei risparmi alla famiglia di quel bimbo - sussurra -. Ho qualche soldo da parte. Soldi proprio miei. Sono quelli che mi mandarono tante ' nonnine' da tutt' Italia quando tornai a casa. Volevano che comprassi dei giocattoli. Li ho messi da parte. Sono pronto a darli a quei cattivi che hanno preso Farouk. Purché lo lascino andare, lo facciano tornare a casa. So come si vive in quei momenti, il male che ti fanno...". Ancor oggi basta un semplice accenno ai quei giorni bui o la notizia di un nuovo rapimento perché Marco interrompa gli studi o i giochi e si irrigidisca con lo sguardo perso nel vuoto. "E quando rapiscono qualcuno vuole sapere, chiede particolari...", spiega il padre, Gianfranco Fiora. E' come se ci fosse una specie di legame tra i piccoli sequestrati. Amicizie cementate da un terrore comune e da un' esperienza difficile da dimenticare. Nel marzo di due anni fa a casa Fiora squillò il telefono: "Ciao Marco, sono Cesare Casella. Come stai? Ce l' abbiamo fatta, siamo vivi, collega...". Ora Marco spera di poter fare la stessa telefonata a casa Farouk.