Pressione psicologica. Prima con i messaggi e le visite di solidarietà ai familiari dei rapiti, poi in aula davanti ai giudici. Nel corridoio della corte d'assise, la compagna di Matteo Boe ne ha una per tutti. «Federico Palomba, il vostro presidente, è arrivato ad attribuire ai sequestri di persona perfino l'aumento della disoccupazione. Siamo a livelli di fantascienza», urla Laura Manfredi. Che si lava la bocca anche con la Chiesa. «Il vescovo di Tempio si è spinto addirittura in tribunale: una intollerabile ingerenza. Sono legati a doppio filo con il potere. Sino a ieri facevano votare per la Dc, adesso si sono fatti più coraggiosi». Assediata da microfoni e telecamere, la donna che ha regalato a Boe tre figli nonostante la lunga latitanza è la vera protagonista di un'udienza preliminare dirottata in corte d'assise per problemi di sicurezza. Dentro l'aula, guardato a vista da undici carabinieri, il suo compagno si difende dall'accusa di essere la mente pensante e il vero organizzatore del sequestro di Farouk Kassam. Fuori, gli avvocati non servono: ci pensa lei. La sentenza della corte d'appello di Sassari (trent'anni di carcere per Ciriaco Baldassare Marras e Mario Asproni, i due imputati che Boe ha cercato invano di scagionare) è un boccone troppo amaro da inghiottire: nel giorno di San Valentino non c'è spazio per i messaggi d'amore. «Più che la sentenza», commenta «è sconcertante l'ostentazione con cui la corte ha detto noi vi condanniamo senza dare spiegazioni decenti». Ma ciò che brucia nel cuore di una donna che spara a zero anche sui giornalisti («più attenti alla barba, agli abiti di Matteo e ai pezzi d'ambiente») è la presenza al processo Kassam di monsignor Paolo Atzei. «Non ho mai visto un vescovo in tribunale», ripete con assillante monotonia riferendosi all'incontro di Sassari. Quando il prelato francescano ha scambiato due parole con il piccolo Farouk in una pausa del processo d'appello. Primo atto di un procedimento penale che avrà un seguito eccellente con Boe alla sbarra se il giudice per le indagini preliminari, Michele Jacono, accoglierà la richiesta di rinvio a giudizio del sostituto procuratore Mauro Mura. «Innocente è una parola che mi disgusta», continua la Manfredi. «Non so se Matteo è colpevole. Ma, anche se lo fosse, questo non è certo emerso dal processo di Sassari. Il vero processo, per lui, inizia adesso. Anche se qualcuno se n'è dimenticato». Cappotto coloro cammello e scarponcini neri montati su un fisico asciutto, la compagna di Boe si ripete. Da quando hanno arrestato Matteo, lei vaga per carceri e tribunali per raccontare la sua verità. Sul sequestro Kassam e sulle dichiarazioni del piccolo Farouk, mutilato durante la prigionia, la Manfredi ha una teoria. «Dopo la sua liberazione, il bambino è stato dovunque, perfino da Magalli. Figurati cosa gli hanno messo in testa», risponde senza esitazione anticipando il pezzo forte della sua personale difesa. «Basta con queste interviste», tuona l'avvocato Mariano Delogu, legale della famiglia Kassam. Ma la donna non lo sente: parola e microfoni ancora alla difesa. Una difesa fatta di conferme e smentite. Soprattutto di una notizia rilanciata dopo la sentenza della corte d'appello di Sassari: durante il periodo trascorso nel carcere di Badu 'e Carros, qualcuno si è mosso per cercare di far fuori Boe. «Fanfaronate», taglia corto la Manfredi che rifiuta ogni commento sui figli e conferma il suo disgusto per la categoria dei giornalisti. «So già cosa scriverete domani. Ho visto gli appunti di un suo collega: giacca nera di velluto liscio, pantaloni neri di velluto a coste, lupetto blu e scarponi marrone». Lo odia. Odia lo stereotipo del bandito sardo e quel look da balentes che le tv hanno presentato a tutta l'Italia con il nome e l'immagine del suo uomo. «Dentro si può entrare», chiede una ragazza bruna che non resiste alla tentazione. «No, è una udienza preliminare», risponde uno dei carabinieri comandati al controllo di Boe. Udienza a porte chiuse. Sino a quando il gip non decide di rinviare tutto all'8 marzo e concede alla Manfredi cinque minuti cinque in aula, lontano dall'occhio discreto della telecamera. La donna si blocca, dribbla i microfoni e si avvicina alla gabbia della corte d'assise. Un'ora prima, quando Matteo si è presentato davanti al giudice con la sua scorta personale (sei militari), tra flash e obiettivi non c'è stato un un secondo di pace. Adesso ruba due confidenze al suo compagno. Che tra meno di un mese dovrà ritornare di nuovo «giacca nera, pantaloni neri, lupetto nero, scarponi marrone» davanti al gip. Per rispondere del sequestro e di quella mutilazione che Farouk porterà con se per tutta la vita.
STEFANO SALONE