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Una casetta sulla parete

 

Accompagnato dai giudici il piccolo Kassam ha ritrovato nell'antro le tracce lasciate durante la sua prigionia

 

LULA. Una casetta piccola piccola - con tanto di porta e finestre - incisa nella parete della grotta: Pollicino-Farouk ha lasciato il segno nella caverna dell'orco. L'ha ritrovato ieri quel disegno che gli ricordava la sua casa e forse lo aiutava ad addormentarsi nelle centocinquanta lunghe notti di prigionia. Lo aveva tracciato proprio dove dormiva, in fondo alla lunga e strettissima grotta nel cuore inaccessibile del Montalbo. La casetta è solo un particolare del riconoscimento della grotta di aitu 'e voes. Emblematico per il suo carico di tristezza (il bambino disegnava solo e sempre casette) ma piccolissimo. Perchè Farouk la sua prigione prima l'ha raccontata in tutti i dettagli al presidente del tribunale di Tempio, Francesco Mazzaroppi, che lo interrogava con l'aria da maestro bonario e poi ha condotto una visita guidata, cicerone diligente di una prigione dell'orrore. E' il giorno fissato dal Tribunale di Tempio per il sovralluogo nella grotta, scoperta esattamente due anni fa dai carabinieri del reparto operativo di Nuoro dopo un meticoloso lavoro sulle fotografie sequestrate a Matteo Boe. Farouk arriva con la madre Marion, il padre Fateh e l'amico di famiglia Gianmario Orecchioni su un elicottero della polizia, i giudici Francesco Mazzaroppi, Maria Paola Tommaselli e Marco Mancinetti, su un elicottero dei carabinieri. Tutta la zona è in stato d'assedio. L'appuntamento è per le nove e mezzo alla cantoniera di Ianna e rughe, sulla Lodè-Lula. E da qui, la porta della croce, inizia il ricordo del calvario di un bambino. Farouk indossa jeans, felpa rossa, giubbotto blu e si arrampica agile sul versante nord del Montalbo, guardato a vista da mamma e papà. Ma i tempi della paura sembrano ormai lontani e il bambino affronta la scalata con un altro spirito rispetto a quello del primo sovralluogo di due anni fa, a pochi mesi dal rilascio. Una scalata davvero faticosa benchè durante le numerose battute i carabinieri abbiano tracciato una sorta di sentiero. Fanno gli onori di casa il colonnello Francesco Angius, comandante dei carabinieri del gruppo di Nuoro e il capitano Vincenzo Bono, a capo del nucleo operativo. A metà di un percorso già arduo, si affronta una ripidissima, quasi perpendicolare, salita pietrosa: nel corso delle numerose battute una sessantina di carabinieri sono rimasti lievemente feriti a causa dei sassi che rotolano giù. E poi un tappeto insidioso di terriccio e foglie. Ma Farouk sale tranquillo, più agile e sicuro degli adulti. Alla fine arrampicata libera. Qui, ad ottocento metri di altezza, con una vista mozzafiato su buona parte di Barbagia e il libero territorio di Lula, tra i lecci e i corbezzoli c'è quello che per molto tempo dev'essere stato il rifugio di Matteo Boe. Sosta davanti alla grotta. Il presidente parla con Farouk. Ti ricordi questo posto? «Sì». E' qui che sei stato? «Sì». Sei sicuro? «Sì». Sei uscito qualche volta? «Sì, due volte». Che classe fai? «La quinta». Adesso raccontami bene come era questa grotta. Dimmelo come se stessi facendo un compito. Farouk, dopo i primi monosillabi, prende coraggio ed inizia a raccontare. Ogni tanto gli scappa qualche parola in francese e i genitori intervengono per aiutarlo a spiegare meglio. «Si entra dentro e poi si gira a sinistra. C'è un gradino, si scende e lì c'è il camino, il posto dove facevano il fuoco. Sulla destra c'è un buco ed è coperto dalle pietre». Perchè? «E' molto pericoloso, si può cadere giù. Dopo c'è un gradino più alto e là, in fondo, dormivo io». C'era luce? «C'era un piccolo buco ed entrava luce, però pochina». Era molto in alto? «Sì, più del mio papà». Hai disegnato qualcosa? «Una casetta con la porta e le finestre». E' il momento di entrare nella grotta. Con Farouk e i suoi genitori entrano solo i giudici, il pubblico ministero Mauro Mura, gli avvocati, il cancelliere. Poi sarà il turno della visita libera per cronisti, curiosi e parenti degli imputati giunti in delegazione sul Montalbo. Il bambino si raggomitola ed entra spedito. Questa volta non c'è da aver paura: la mamma lo tiene per mano, giudici e poliziotti scherzano con lui. L'apertura è sufficiente per far passare un uomo adulto. Quando i carabinieri l'hanno trovata, era completamente ricoperta di rami e frasche. Per entrare nella prigione di Farouk bisogna scendere un metro e mezzo circa, sotto il livello del terreno. Dopo una sorta di piccolo ingresso, si gira a sinistra e c'è la prigione vera e propria: lunga sedici metri su tre livelli divisi da gradini alti una ventina di centimetri, larga un metro, al massimo un metro e mezzo. Tutto corrisponde, in ogni minimo particolare, al racconto del bambino. Farouk indica senza esitazione: «Questi sono i buchi dove mettevano le candele, qui appendevano la roba e là appoggiavano le armi». Il piccolo prosegue fino al fondo del cunicolo dove stava lui. «Ecco questa è la casetta che ho disegnato e io dormivo qui». Si sdraia per terra, là dov'era una camera da letto inadatta a qualsiasi essere umano, infame per un bambino di sette anni. Proprio sopra di lui, ad un'altezza di circa due metri e mezzo entra da un'apertura un debolissimo spiraglio di luce che non basta a rischiarare la prigione. Nessuno ha più dubbi -se mai gli oggetti ritrovati ne avessero lasciato -sul fatto che sia quella la grotta in cui il bambino ha passato tutta la sua prigionia, dopo due brevi spostamenti iniziali. E' passata la una e per Farouk è abbastanza. Può andare con i saluti del presidente del tribunale: «Mi raccomando, ricordati che dobbiamo fare ancora una chiacchierata. Ma non qui». I Kassam vanno via, scortati dagli agenti. Farouk ostenta coraggio. Hai avuto paura oggi nella grotta? «No». Non ci sono altre domande, oggi, per Farouk. Inizia la pericolosa discesa verso la strada. Forse la stessa che ha affrontato due anni fa quando andava verso la libertà. Forse no. La grotta, impossibile da individuare se non con l'aiuto delle fotografie, era un rifugio sicurissimo per i sequestratori. Praticamente introvabile. Perchè la notte del dieci luglio il bambino è stato lasciato «momentaneamente incustodito», come affermano gli inquirenti, nella valle del Cedrino? Che logica aveva, se non quella di un rilascio tradizionale, lo spostamento con un pullmino in una notte d'assedio? Finora il processo non ha neanche sfiorato quest'argomento. Ma non sono domande che sfiorano Farouk. Nella sua testa non c'è un sequestro dei misteri ma la storia di un «bambino rubato». Scende correndo pericolosamente dal costone del Montalbo come può fare solo un bambino di dieci anni. Lo aspetta un altro viaggio in elicottero verso Porto Cervo. Forse tutto questo riesce ad avere ancora, almeno un poco, i contorni del gioco. E i banditi e i poliziotti, i buoni e i cattivi, i mitra e le grotte dell'orco torneranno ad essere personaggi da telefilm.

CATERINA DE ROBERTO