La prima volta che tentai di entrare in Colombia fu nel gennaio 1989. Era in atto la guerra dei cartelli: il gruppo di Medellin e quello di Cali si affrontavano senza esclusione di colpi. Un anno prima si erano registrati gli attentati alle farmacie “Drogas la Rebaja” dei fratelli Rodriguez del cartello di Cali che risposero con un’autobomba, stile Beirut, distruggendo l’edificio Monaco, residenza di Pablo Escobar -capo indiscusso del cartello di Medellin- e della sua famiglia. Il mio contatto a Cali era un giornalista brasiliano, del quale possedevo indirizzo e numero telefonico, da Tulcan, città ecuadoriana a cinque chilometri dal confine colombiano. Tentai di chiamarlo per diversi giorni, e quando finalmente riuscii a comunicare con lui, mi disse che stava scappando da Cali. La situazione si era fatta estremamente pericolosa, i giornalisti erano sotto pressione e continuamente minacciati: chi non si assoggettava alla logica dei cartelli, veniva di fatto “condannato a morte”.
Quella volta, ovviamente, decisi di abbandonare il progetto. Almeno fino a quando la situazione non si fosse normalizzata.
Il gruppo di Medellin, all’epoca si trovava impegnato sui più svariati fronti: sia contro lo Stato, in seguito all’assassinio di Rodrigo Lara Bonilla, ministro di Giustizia nella presidenza di Belisario Betancur, perpetrato per ordine di Pablo Escobar e di Rodrigo Gacha; sia contro i movimenti guerriglieri di ideologia filo marxista (M19, Farc, Eln e Epl), in guerra col governo degli Usa che richiedeva alla Colombia, ripetutamente e insistentemente, l’estradizione dei suoi cittadini che si fossero macchiati di traffico illegale di stupefacenti in territorio norda-mericano. Ancora, in conflitto, con gli smeralderos che non autorizzavano il passaggio dello stupefacente nei territori da loro controllati ed, infine, con il cartello di Cali.
La risposta del cartello di Medellin contro questo folto fronte di “nemici”, fu quella di una guerra a tutto campo e totalizzante.
In una Colombia già stremata in una condizione di per sé tragica era diventata quotidianità condivisa, in perenne conflitto, sull’orlo della guerra civile. Doveroso ricordare come il cartello di Medellin fosse, a quel tempo, il più potente della Colombia e di conseguenza il più pericoloso e micidiale del mondo intero, quantomeno nel mercato planetario degli stupefacenti. Aveva a disposizione un proprio consistente, esercito paramilitare, addestrato ed armato di tutto punto; poteva disporre di 2000 sicari, una liquidità in dollari americani ed in pesos tale da poter ripianare (e non una sola volta) il debito pubblico colombiano e di qualsiasi altro paese sudamericano. La città di Medellin, era il terreno di coltura della sua “giurisdizione”, tutto pervicacemente e solidamente assoggettato al proprio controllo ed al proprio inferno. Metà della capitale del dipartimento di Antioquia, era nel loro libro paga, l’altra metà era sotto il giogo del terrore.
A capo del cartello, inizialmente Pablo Emilio Escobar Gaviria, a seguire Gonzalo Rodríguez Gacha detto El Mexicano, Carlos Lehder (alias Charly), Gustavo de Jesús Gaviria cugino di Pablo, Fabio Ochoa, Jorge Luis Ochoa e Juan David Ochoa, meglio conosciuti come “los hermanos Ochoa” (i fratelli Ochoa), infine, unica donna del gruppo, Griselda Blanco soprannominata “la reina de la coca” (la regina della coca).
A mente fredda e col senno dell’oggi, va detto che la Colombia si trovò del tutto impreparata a contrastare due stratosferici fenomeni, come la cocaina e i cartelli. Gli apparati militari e di investigazione erano totalmente all’oscuro di quel che si andava realizzando; ad esempio del fatto che, all’epoca, si potesse processare ingenti quantità fino a diverse tonnellate al giorno di cocaina, che si potesse contrabbandarla con decine e decine di aerei, nel Messico e negli Stati Uniti. Ancora più incredibile, gli apparati erano all’oscuro persino che in Colombia qualcuno fosse in grado di coltivare la foglia di coca.
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Endemica del Perù e Bolivia, la foglia di coca infatti non aveva (così almeno si pensava allora) alcuna possibilità di crescere in Colombia. Fu Rodrigo Gacha a comprare o meglio a “trafugare” le sementi ai cocaleros peruviani e ad iniziare quel percorso dell’orrore, che ha portato il Paese a primati che nessuno avrebbe mai pensato di poter raggiungere. Si prenderà pienamente e drammaticamente coscienza del fenomeno, solo agli inizi del 1984, vale a dire quando tutto era già tragicamente in essere.
Ed accadde quando le forze di polizia Colombiane scoprirono “Tranquilandia”.
Fu Carlos Lehder a battezzare il più grande “laboratorio” a cielo aperto di cocaina al mondo, con questo sostantivo aulico. “Tranquilandia” per sottolineare per l’appunto, quanto fosse tranquillo quel luogo sconosciuto ai tanti, ed ancor più alle autorità ed alle forze dell’ordine costituito. Si sa per certo che ad idearlo e realizzarlo fu Gonzalo Gacha, con l’apporto di Pablo Escobar e, ovviamente, di Carlos Lehder.
Ma nessuno, ancora oggi, è in grado di sapere con esattezza quando tutto questo poté cominciare.
Quel che ormai è certo è il fatto paradossale che, alla data della sua scoperta ufficiale, marzo 1984, “Tranquilandia” era operativa da almeno un decennio.
Una vasta estensione di terra selvatica, che copriva una larga fetta dei due dipartimenti territoriali del Caquetá e del Meta. Per capirci: occorrevano otto ore di auto per percorrerla in tutta la sua estensione, da nord a sud. Una volta scoperta, i militari non credettero ai loro occhi: 19 laboratori, che disponevano di oltre 100mila ettari di coltivo di foglia di coca, in cui si processavano dai 500 ai 1.500 chilogrammi di cloridrato di cocaina al giorno, 13,8 tonnellate di cocaina pronta per esser spedita nel Messico e negli Usa per un valore stimato di 1.200 milioni di dollari, 20 tonnellate di “guarapo” pronto per esser processato in “pasta brava”, inoltre una sartoria per indumenti e divise militari a disposizione dell’esercito clandestino e delle guerriglie, ed un numero imprecisato di personale di “servizio”, per i vari processi chimici della foglia, per le mense e per i dormitori. Di più: un edificio con funzioni di foresteria per i capi ed eventuali ospiti “speciali”, un “ufficio contabile” ed un altro ancora con locali di “rappresentanza”, oltre ad otto piste di atterraggio, una decina di aerei ed un elicottero modello Huges 500 ad uso esclusivo dei capi, per spostarsi facilmente in territorio Colombiano, con numero di matricola HK 2704 X che, verrà accertato in seguito, apparteneva ad Alberto Uribe Sierra. Costui era il padre di quell’Alvaro Uribe che diventerà Presidente della Repubblica Colombiana nelle legislature 2002-2010. Nel covo di “Tranquilandia” anche un’infinità di armi, di sistemi telefonici satellitari, apparati di osservazione estrema- mente sofisticati, matrici di assegni. Riscontri che raccontavano di corruttele con e per i politici di ogni ordine e grado, di funzionari governativi, di giudici, polizia e militari.
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Spesso, durante il mio viaggio nei percorsi della cocaina, nei contatti e nelle interviste, la mia nazionalità Italiana mi ha aiutato tantissimo a relazionarmi con le persone. Nell’immaginario di molti, essere italiano significava conoscere, (chissà poi perchè?) la mafia di cosa nostra. E quindi diventava doveroso poterla raccontare, se non persino spiegare. In fondo a loro piaceva sentire come, da noi in Italia, era da tempo risaputo che le mafie fossero tante e diversamente organizzate, anche se, al contempo, univoche nell’assoldare criminali, fidelizzarli in codici d’onore primitivi e ghettizzanti, per ottenere proventi esponenziali per le loro “famiglie”. In parole più semplici: ottenere denaro dal crimine, denaro utile da investire in altri crimini, per ottenere ancora altro denaro… all’infinito.
E poiché non esiste niente di meglio della cocaina per far denaro, anche ai miei interlocutori veniva piuttosto semplice capire come certi nuovi percorsi “colombiani” potessero giocoforza coincidere con gli storici percorsi dei “padrini” delle storiche “famiglie” italiche.
La cocaina è, di sicuro, il bene criminale più “lucroso” della terra. Quantomeno finché durerà il proibizionismo. Ogni dollaro investito in cocaina, alla n della “ filiera”, maggiora dalle 750 alle 1.200 volte l’investimento iniziale.
Per i colombiani il ventennio ’74-’94 è stato, sicuramente, uno dei periodi più cupi da quando, nel 1886, è di fatto ed in diritto istituita la Repubblica di Colombia.
Quando decisi di raccontare la cocaina a modo mio, presi a viaggiare per la Colombia, prima nelle città metropolitane, poi nelle semplici cittadine ed in ne nei piccoli pueblitos. Territorio dopo territorio. Finalmente, iniziavo a prendere coscienza di quel demone che, per overdose o per Aids, mi aveva privato di non pochi, e a me cari, amici.
Nel 1989 nasce la prima idea di Colombia, vent’anni dopo nell’estate del 2009 a Roma l’incontro con un editore al quale ho illustrato il progetto per un libro che raccontasse la cocaina in modo inusuale. Senza censure, al di fuori dei luoghi comuni. Raccontare le verità, che per tutto questo tempo ci sono state negate. Pensava ad uno scherzo, poi capito che facevo sul serio mi chiese se il sole della Sardegna mi avesse fatto danno: “un libro che insegni come farsi la cocaina in casa? Solo un pazzo può pensare che si possa pubblicare”.
I numeri. Sono proprio loro, quelli che spaventano. Perchè sono quelli che, anche da soli, danno la percezione del business generato dalla cocaina. I dati che arrivano dalla Colombia parlano, a conti costantemente crescenti, di 231.642 ettari coltivati a coca. Se moltiplichiamo questo dato per 4 chili di cocaina ad ettaro per anno, abbiamo 926.568 chili di cocaina, più o meno 77,2 tonnellate al mese. Con il suo territorio di 1.141.748 kmq la Colombia ha, come detto, oltre 2.300 kmq di coltivo in foglia di coca, in percentuale lo 0,2% dell’intero territorio Colombiano.
Quando gli Stati Uniti presero in consegna dalla Colombia il narcotrafficante Daniel Barrera Barrera, conosciuto come “Loco Barrera”, costui, dichiarandosi colpevole davanti alla Corte federale di Manhattan, confessò di aver “contrabbandato”, in centroamerica e negli Stati Uniti dal 1998 a tutto il 2010, qualcosa come 400 tonnellate di cocaina all’anno.
Juan Carlos Ramírez Abadía, detto “Chupeta” (per la sua ossessione per i lecca lecca), narcotrafficante, nato a Palmira, città a pochi chilometri da Cali, è stato capo del Cartello del Norte del Valle. Venne arrestato nel 2007 a San Paolo del Brasile e un anno dopo verrà estradato negli Stati Uniti. La polizia Colombiana, ricevendo alcune confidenze, ritrova, nel gennaio 2007, nei quartieri de La Merced e Vipasa nella città di Cali, vari nascondigli che celavano 106 milioni di dollari, dei quali 12 milioni intaccati irrimediabilmente da insetti, e 308 lingotti di oro. Niente a paragone dell’immensa sua ricchezza valutata, secondo le autorità Colombiane, in 1.800 milioni di dollari. In termini di denaro, la sola Colombia, muove ogni anno 333 miliardi, 568 milioni e 800 mila dollari americani. Ma, solo lo 0.83% resta in Colombia.
Ipotizziamo che, altrettanto venga prodotto sia dalla Bolivia, dove il coltivo della foglia è legale, sia dal Perù che, a detta di una non precisata classifica, è diventato il Paese che esporta più cocaina al mondo. Entrambi i paesi hanno un’estensione quasi pari a quella della Colombia. Ed ancora: Indocina, Brasile, Argentina, Panama ed Ecuador che, in questa “corsa”, vengono confinati al ruolo di gregari, ma che risultano pur sempre determinanti nel dare il proprio contributo affinché la cocaina fatturi nel mondo non meno di 1.400 miliardi di dollari all’anno. Una montagna di soldi che – per chi fosse appassionato di statistiche– costituisce quasi il 10% del prodotto interno lordo Statunitense, più della metà del debito pubblico Italiano, cinque volte e mezzo il PIL di Israele, 230 miliardi in più di quello del Messico e quanto tutto il debito pubblico del Giappone. Mai nella storia dell’umanità è esistito un delitto, che abbia avuto la capacità di “produrre” tanta ricchezza in così poco tempo. La principale arma che hanno i cartelli è il danaro. In secondo ordine vengono le armi.
Il totale dei morti ammazzati in Messico, per il controllo della cocaina nel quinquennio 2007-2012 è di 60.000 persone, a cui vanno sommate 23.000 individui scomparsi. Altre fonti, arrivano a contare fino a 150.000 morti. Gli scontri tra i cartelli della droga, hanno causato un clima di estrema violenza superando i corpi di polizia municipale e statale in armamento leggero e pesante. Più di 4.000 omicidi, in base alle stime più prudenti, sono attribuibili per mano o ordine diretto a Pablo Escobar Gaviria dal 1980 al 1993, dei quali più della metà sono agenti di polizia, giudici, funzionari governativi, politici e giornalisti.
Questo mare di denaro, deve esser poi riciclato.
E qui intervengono il sistema bancario, della finanza e del credito. Secondo la Dea –Drug Enforcement Administration– nella sola città di San Francisco in California gli istituti bancari che riciclano i proventi della cocaina sono più di cento. Il ruolo delle banche è, giocoforza, fondamentale. È nelle loro casseforti, che transita quell’oceano di danaro: sono loro i primi beneficiari e sfruttatori del traffico degli stupefacenti.
Jennifer Shasky Calvery, direttrice del Financial Crimes Enforcement Network -l’anti riciclaggio del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti- in una sua dichiarazione al congresso Americano, accusò gli istituti bancari statunitensi di utilizzare grandi quantità di denaro provenienti dal traffico di cocaina e, che grazie alle centinaia di miliardi di narco-dollari molti istituti riuscirono a passare indenni la crisi del 2007.
Cocaina per far quadrare i bilanci.
Sono a New York e a Londra i centri di riciclaggio preferiti dai narcos, qui si lavano miliardi, miliardi e miliardi di dollari, senza curarsi della provenienza.
La Wachovia Bank con sede a Charlotte nella Carolina del Nord, è una delle più grandi banche degli Stati Uniti. Nel 2009 le autorità Statunitensi sospettano che la banca ricicli i proventi dei cartelli messicani con l’utilizzo delle “casas de cambio mexicana”.
I sospetti diventano certezza. Dal 2004-2007 una quantità impressionante di denaro illecito è transitato nelle casse di Wachovia per conto dei cartelli messicani. Douglas Edwards, vice presidente senior, alla fine confessa. È di 378,4 miliardi di dollari il calcolo preciso del Dipartimento del Tesoro americano, secondo le cui stime ammonta a 12,7 miliardi di dollari il guadagno maturato dalla Wachovia Bank per la gestione di quella marea di miliardi di dollari e per le operazioni di valuta. Alla Banca non resta che assumersi le proprie responsabilità e giungere al patteggiamento con il Governo Usa: 110 milioni di dollari in confisca e 50 milioni di multa, per un totale di 160 milioni di dollari, meno del 2% dei 12,7 miliardi incassati. Niente, a confronto delle centinaia di miliardi di dollari riciclati, dalla banca. Nello Stato dove i disabili mentali vengono condannati a morte, i grandi ladri, complici delle grandi associazioni criminali, se la cavano con una multa irrisoria e nessuna conseguenza penale per le loro criminali azioni. Il business dello stupefacente, non si limita solamente alla produzione e allo smercio. C’è anche un business nella lotta alla droga nel mondo.
Eh sì, anche per combattere la cocaina si fanno tanti soldi.
La guerra alla droga negli USA inizia nell’era Nixon con la creazione nel 1973 della Dea (Drug Enforcement Administration), che raggruppa in un’unica agenzia antidroga le precedenti BNDD e ODALE. Tutto comincia con un budget di 65 milioni di dollari, ma anche l’Fbi pretende di entrare, di diritto, nel nuovo business dell’antidroga. E così, mentre Gonzalo Rodrigo Gacha nel 1971 rubava le sementi della coca in Perù, e Pablo Escobar Gaviria faceva la spola tra Colombia ed Ecuador, per acquistare il solfato di coca per raffinarla a Medellin, negli Usa la lotta alla droga era quella alla marijuana, perchè il concetto di droga pesante, all’epoca, era limitato all’eroina, ma ancor di più alla marijuana.
La durissima legge antidroga voluta dall’allora ex governatore di New York, Nelson Rockefeller, seguendo le idee proibizionistiche di Herry Jacob Anslinger, metteva lo spaccio di droga (non violento) alla stessa stregua dell’omicidio. In quegli anni era più salutare assassinare la propria suocera che farsi trovare in tasca uno spinello di marijuana.
Ad ogni modo, la Dea prende definitivamente coscienza della cocaina solo alla fine degli anni settanta, quando il cartello di Medellin ne aveva inondato il nord America e all’aeroporto internazionale di Miami venivano scovate e sequestrate, per la prima volta, due tonnellate di cocaina proveniente dalla Colombia.
Da quei 65 milioni di dollari di budget iniziali, dopo 12 anni la Dea dispone di 1,2 miliardi di dollari. Nel 1986 il governo di Ronald Reagan erogò per la lotta alla droga quasi 3 miliardi, nel 1989 il suo successore George Bush portò il budget a 6,7 miliardi che alla ne del suo mandato – nel 1992 – viene raddoppiato.
Nel 2011 il budget è di 15 miliardi di dollari, per arrivare nel 2012 a 25,2 miliardi annuali. In contropartita tra il 2000 e il 2003 il Ministero di Giustizia Usa ottenne dalla lotta agli stupeacenti –confiscati ai narcos– poco più di 1 miliardo di dollari. Nel 2008 la cifra confiscata arriva ai 3 miliardi di dollari. A dirla tutta, probabilmente, da un punto di vista economico della redditività, sarebbe meglio non disturbare i cartelli, perchè il bilancio finale ogni anno, appare, più che deficitario, catastrofico.
È business anche il gestire la detenzione, di chi si sia macchiato del reato di spaccio. Oggi negli Usa come in Gran Breagna è in uso un sistema carcerario privato, così come lo stesso trasporto dei detenuti. I governi, ormai, preferiscono demandare più che gestire in proprio, la popolazione carceraria. Dal 1920 al 1970 il tasso di carcerazione negli Usa rimane pressoché invariato.
Dal 1970 inizia una escalation vertiginosa che, da allora, non ha più freni. Solo il 5% degli abitanti al mondo è statunitense, ma il 25% della popolazione carceraria nel mondo è statunitense. Oltre 60% dei 2,3 milioni di carcerati negli Usa, scontano pene per reati di droga. Il 90% dei detenuti condannati per droga sono afroamericani e latinoamericani.
Nessun paese al mondo si avvicina a queste cifre. Nemmeno Cina e Russia.
Il 50% degli americani ha fatto uso di sostanze stupefacenti. Negli ultimi vent’anni si è speso più per costruire nuove prigioni che per costruire scuole. E naturalmente da tutto ciò c’è chi ne trae vantaggi: sicuramente le lobby delle prigioni private, i direttori, i funzionari carcerari, i sindacati del personale penitenziario e le stesse guardie carcerarie.
La guerra alla droga è il più grande business politico mondiale, perpetrato a discapito del contribuente dei paesi democratici.
In Colombia l’esercito, la polizia, la Fiscalia, ogni ente governativo preposto alla lotta contro la droga, avrebbe svantaggi economici se si attuasse il “pensiero” dell’attuale presidente della Colombia Manuel Santos: legalizzare la cocaina in Sudamerica. Gli stessi movimenti di guerriglia cadrebbero in “disgrazia” senza la cocaina, dato che sono i proventi della cocaina che rendono possibile la loro stessa ragione di esistere. Senza la cocaina che, da sola, riempie le casse è la stessa ragion d’essere delle guerriglie, queste firmerebbero qualsiasi trattato di pace che i governi gli mettessero davanti al tavolo. Al contrario, in un quadro proibizionistico, è improponibile ed illusorio un qualsiasi trattato di pace vera con le guerriglie che, sino ad oggi, hanno fatto della cocaina l’unica vera fonte di finanziamento degli stessi movimenti narco-militari, che garantiscono il controllo dei campi, i laboratori, la raffinazione.
La cocaina, e non le idee o le ragioni politiche che professano, sono la vera forza motrice dei movimenti guerriglieri Colombiani e nel resto della “Regione”. In Perù, prendendo esempio dai loro cugini, stanno ricostituendo il movimento Maoista di Sendero Luminoso, al solo scopo del controllo della cocaina. Messo in archivio il Capitale di Carl Marx e il libretto rosso di Mao, le guerriglie in America Latina preferiscono gli appunti chimici di Albert Niemann.
Le Farc controllavano le piantagioni di coca, processavano il solfato di coca, raffinavano il cloridrato di cocaina. Anche solo pensare che le guerriglie possano smettere di processare cocaina dall’oggi al domani, dopo che per un quarto di secolo hanno fatto soprattutto questo, è una folle e pericolosa illusione. Il movimento delle Farc in Colombia anni addietro, contava non meno di 37 mila uomini. Sembra che, in questo ultimo decennio, per strada se ne siano persi almeno 25 mila, ma sono ancora troppi quelli con l’idea che il “controllo” della cocaina sia solo la loro ragion d’essere.
La possibilità che la Colombia possa tornare al periodo degli Escobar, dei Gacha e dei Rodriguez è concreta, che possano tornare i cartelli tradizionali è sicuro, che la Colombia diventi una pessima copia del Messico è una possibilità concreta.
Sono innamorato della Colombia, ci vivo ed amo i colombiani.
Spero, con il cuore e con la testa, che io mi sbagli. Che tutto quel che temo non avvenga, e ritengo che l’unica soluzione, anche se può sembrare estrema, sia rappresentata dalla legalizzazione della cocaina. La cocaina, questa grande e generosa vacca con mille mammelle, cui in troppi vi si attaccano per succhiarne il latte; una vacca che rende: alcuni ricchissimi, altri ricchi ed altri meno poveri, ma tutti, nessuno escluso, colpevoli. Non solo chi si droga e ne alimenta il mercato, ma anche chi all’interno del simulacro della rispettabilità, fa finta che il problema non lo riguardi.
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Le grandi ricchezze vanno sicuramente alle mafie, alle banche, alle associazioni a delinquere, a quelli che hanno fatto del mercato degli stupefacenti, la loro maggiore fonte di guadagno. Grazie ai proventi della droga le mafie possono reinvestire i denari in altre operazioni illegali e non solo. Nel libro “Gomorra” lo scrittore Roberto Saviano racconta che la camorra, con i proventi della cocaina, dopo la caduta del muro di Berlino, decise di comprare gli arsenali militari dei paesi satelliti del ex patto di Varsavia. Centinaia di migliaia di armi di ogni genere per poi, volta per volta, trasportarle in zone di conflitti e venderle a caro
I ricchi, anche loro hanno diverse… taglie.
Il “Trafficante”.
Spariti i cartelli in Colombia e con loro il tradizionale narcotrafficante in stile Escobar-Gacha, la cocaina rende ricco persino quel “piccolo” trafficante che acquista importanti quantitativi di base di coca e la trasforma, in proprio, in cloridrato di cocaina. A Bogotà, durante la mia inchiesta sulla cocaina, incappai in un investigatore che mi raccontò di una soffiata avuta in forma anonima, che una volta verificata nell’abitazione principale del sospettato, sembrò del tutto infondata. Decisero comunque di portarsi nella casa di campagna (finca) del sospettato e notarono subito come il parquet in legno fosse nuovo e impiantato da poco, ed è sotto quel pavimento che scovano 79milioni di dollari perfettamente cellofanati.
Il “Cocalero”.
Il vero motore di tutto questo ingranaggio è il contadino. Colui che semina, raccoglie e poi trasforma. Succube delle multinazionali del tabacco, del cacao e della frutta il cocalero è una diretta conseguenza dello sfruttamento, senza etica e senza cuore, della globalizzazione. La condizione di povertà del con-tadino grazie alla foglia di coca diventa una condizione che va aldilà della sopravvivenza, il contadino diventa cocalero per costrizione. La foglia di coca ha mercato, la papaya, l’ananas, il mango e il banano no. Costretto per necessità a coltivare la foglia di coca, è lui a trasformarla in base e per fare questo deve usare prodotti fortemente tossici e cancerogeni. Nel febbraio 2007 fui ‘invitato’ ad assistere, nella regione del Putumayo, alle fasi preliminari di raffinazione e assistetti ad un fatto sconcertante. Aggiungendo l’acido solforico nel guarapo de coca il cocalero constatava l’acidità della benzina versando alcune gocce nella punta della lingua. Benzina ed acido solforico, sono una miscela esplosiva che negli anni porta questa misera popolazione a fare i conti con la propria salute o, peggio, la morte.
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Trattare il narcotraffico dal punto di vista militare e penale è, non solo improduttivo e deprimente, ma da l’impressione che, volutamente, non si voglia affrontare il problema. Gli Stati hanno a che fare con criminali che hanno lo stesso loro potere –se non più grande– quantomeno dal punto di vista economico e della “comunicazione”, con una pletora di veri e propri sudditi.
I narcotrafficanti hanno immense risorse, che gli permettono di corrompere tutti: polizia, giudici, politici e chiunque altro ritengano utile alla loro sopravvivenza di status mafioso-criminale. Hanno tutti i soldi del mondo, per comprare o costruirsi banche, creare apparati paramilitari, per proteggersi o per uccidere. Chi non si sottomette o non vuole vendere il suo consenso, sparisce o viene messo in condizioni di non nuocere. Uno stato che non vuole capire che il narcotraffico non è solo un problema politico-repressivo, è di sicuro uno stato cieco e, anche se involontariamente, il più pericoloso dei complici di questi criminali.
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Ogni anno oltre 45 mila Americani muoiono a causa dell’alcol. Nel 2013 le morti dovute al fumo, sempre negli Usa, sono state 417.533. Il tabacco in quell’anno ha ucciso più di ogni altra droga, più degli incidenti stradali, più dei suicidi, più dell’aids messi insieme. Oggi siamo in molti, a chiedere la legalizzazione della cocaina. Io in tempi non sospetti, nel 1986, mi ero candidato al consiglio municipale della mia città e durante un’intervista televisiva il giornalista, vedendomi giovane, mi chiese quale fosse la mia idea sulla droga. Risposi che l’unica via era quella di renderla legale, affinché lo Stato potesse prenderne e gestire il controllo, ma soprattutto evitare che le mafie si impadronissero del mercato illegale per arricchirsi e diventare, giorno dopo giorno sempre più ricchi e potenti. Persi le elezioni, certo non solo per quella affermazione, che comunque favorì e non poco la mia défaillance.
Un’ultima annotazione. Io resto convinto che se davvero qualcuno crede nella politica della repressione, ci si deve preparare, e ancor prima che subito, a diventare “bestie” come loro se non perfino peggio.
Perchè se così sarà, dovremmo avere il fegato di riporre, nei cassetti dei singoli stati, le varie “costituzioni”, garantiste anche per chi delinque, pensare che i diritti civili siano un diritto inalienabile, ma solo se applicati a regime e non a questi criminali.
Insomma, per loro no.
Per queste genti, non ci può essere il diritto ai diritti.
Altre opzioni?
Non ce ne sono.
© Antonello Zappadu
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