Così hanno ucciso Mastrogiovannidi Gianfrancesco Turano

Così hanno ucciso Mastrogiovannidi Gianfrancesco Turano


Un uomo che non aveva fatto nulla. Fermato dalle forze dell’ordine e legato a un letto d’ospedale. Tenuto per 82 ore senz’acqua e senza cure. Finché è morto. Ma tutto è stato registrato dalle telecamere di sorveglianza. E ora quelle 82 ore diventano una videotestimonianza di denuncia che il sito dell’Espresso trasmette integralmente qui. Un’iniziativa dei familiari della vittima e dell’associazione ‘A Buon diritto’

di Luigi Manconi(28 settembre 2012)

Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell’ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla.

Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all’atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero.


Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un “noto anarchico”, sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d’aria dell’agonia.

Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d’accusa di un processo che si avvicina alla sentenza.

Martedì 2 ottobre, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de “l’Espresso”, in collaborazione con l’associazione “A buon diritto” di Luigi Manconi e con l’accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all’ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da “Mi manda RaiTre” quando il processo era appena iniziato.

Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l’isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L’uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell’ordine e da una decina di addetti dell’Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione.

Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l’associazione degli studenti missini.

Franco Mastrogiovanni Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato.

Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l’illustrazione attimo per attimo dell’abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione».

Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato.

A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l’assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula.

Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un’altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente.

Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell’udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell’Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l’elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all’estero sono state ignorate dal personale dell’ospedale San Luca.

Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l’esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. E’ questo il cardine dell’accusa, secondo l’impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. E’ vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l’omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell’autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un’addetta alle pulizie.

L’avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell’Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella”. Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura.

Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l’omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l’imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all’obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto.

Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.

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