Gennaro Rino Bonifacio: “Rifornivo di cocaina l’Italia Saviano non sa di che parla”

È stato il più grosso narcotrafficante: 4,7 tonnellate importate dalla Colombia. “Il 60 per cento dei professionisti milanesi sniffa. Ma la vera droga è il denaro”

Della bella vita gli resta al polso solo un Rolex Daytona acciaio-oro, «Zenith el Primero, oggi varrà sui 18.000 euro», in sostituzione del Rolex Submariner regalato una sera del 1988, in un impeto di generosità e smargiasseria, al posteggiatore della discoteca Peter Pan di Riccione che gli aveva parcheggiato la fuoriserie. Anche una cintura di Louis Vuitton con monogramma LV alto 4 centimetri, prezzo al pubblico 330 euro. Della malavita gli rimane appiccicata addosso una fedina penale sovrabbondante: tre arresti (1986, 1991, 1999); tre processi, tutti con sentenze di condanna passate in giudicato; 18 dei suoi 45 anni di vita passati in 11 carceri (San Vittore, Opera, Padova, Verona, San Gimignano, Spoleto, Parma, Piacenza, Pavia, Mantova, Voghera), spesso in regime di massima sicurezza.

Malabellavita – come da titolo del suo libro di memorie, fresco di ristampa, scritto con l’aiuto di Riccardo Colao ed Emanuela Baldo – quella condotta sin qui da Gennaro Bonifacio, detto Rino, anzi Rino l’Élite, nato a Gragnano (Napoli), dov’è ancora conosciuto come ‘O Re, oppure ‘O Milanese, essendo cresciuto dall’età di 18 mesi a Rozzano. Accusato per due volte di associazione di stampo mafioso e per due volte assolto, perché nel suo delirio di onnipotenza era arrivato a rifiutare l’affiliazione offertagli sia dalla camorra e sia dalla mafia, fino a diventare il capo incontrastato del clan Bonifacio. Cioè il boss di sé medesimo. Un caso da manuale di criminologia.

Bonifacio fu il primo a importare in Italia l’ecstasy nel 1988: «Allora la Mdma non era illegale, il testo unico sugli stupefacenti neppure la menzionava». Ma il suo nome resterà iscritto per sempre nel libro nero del narcotraffico internazionale per essersi fatto sequestrare in un solo colpo, nel 2001, il più grande quantitativo di stupefacenti mai scoperto fino ad allora in Italia, una tonnellata di cocaina, arrivata dalla Colombia nel porto di Livorno occultata dentro blocchi di marmo sottoposti a sapiente carotaggio: «Lo stesso marmo con cui era stato rivestito il tribunale di Bogotá. Il governo non pagava il conto. Fu facile convincere il produttore». Altri 250 chili li bloccò la Guardia di finanza al casello di Binasco, altri 150 era già riuscito a piazzarli. La Direzione distrettuale antimafia di Milano documentò un traffico complessivo di 4,7 tonnellate, sufficienti a confezionare 14 miliardi di dosi, roba da mandare in bambola per almeno un paio di giorni l’intero pianeta.

‘O Re, dongiovanni dal fisico palestrato, s’era scelto un braccio destro all’altezza: l’attore Danilo Mezzetti, in arte Danilo Mattei, protagonista, guarda caso, del film In nome del Papa Re, nel quale interpretava il ruolo del giovane rivoluzionario Cesare Costa, figlio naturale di monsignor Colombo da Priverno (Nino Manfredi). «Lo conobbi a Ibiza. Doveva coprirmi la piazza di Roma, il jet set, le star dello spettacolo. Era il mio uomo di fiducia. È diventato il mio Giuda. Mi ha venduto ai magistrati, ha dichiarato ai Pm quello che volevano sentirsi raccontare. E pensare che fui io, con Renato Zero, a portarlo nella comunità Exodus di Cassino perché si disintossicasse».

Era il 1987 quando Bonifacio arrivò nell’isola delle Baleari. Subito divenne il numero uno. Alle sue feste ostriche-caviale-champagne non mancava nessuno: «Le modelle Elle Macpherson, Linda Evangelista, Marpessa, Christy Turlington; la cantante Patty Kensit; gli stilisti Jean-Paul Gaultier e Rocco Barocco; la figlia di Mick Jagger, Jade». Fondò un’agenzia di bodyguard che offriva protezione, anche armata, ai Vip: «Parliamo di Robert De Niro, Roman Polanski, Diego Armando Maradona, Harvey Keitel, Renato Zero, Claudia Schiffer, Renée Simonsen, Biagio Antonacci, Teo Teocoli. Anche di Eros Ramazzotti, che è cresciuto insieme a me a Rozzano, e del magnate arabo Adnan Khashoggi, che attraccava col Nabila, il panfilo dai rubinetti d’oro. È durata fino al 1999».

Ma Ibiza da sola non poteva bastargli. Ecco allora aggiungersi le ville a Miami e a Cartagena, in Colombia, dove risulta, dalle intercettazioni della Dia, che possedesse un jet privato. Ecco l’elicottero a Barcellona e il motoscafo a Portofino. Ecco lo yacht di 22 metri ormeggiato sull’Isla Margarita in Venezuela. Ecco le trattative per acquistare l’intera Isla del Coco, al largo del Costarica, e uno dei 300 isolotti dell’arcipelago di San Blas a Panamá. Ecco i legami sempre più stretti con i cartelli di Cali e Medellín, dei quali diventò il plenipotenziario per l’Europa. Ecco addirittura la love story con una nipote del narcotrafficante Pablo Escobar.

Una malabellavita durata dai 14 anni fino al 2000. E oggi? «Tutto finito. Mi hanno sequestrato la Ferrari F355, la Porsche 993 cabrio, la Mercedes ML 5000, le due Harley-Davidson. Mi resta solo una Mercedes Classe A. Sono uscito di galera in libertà vigilata nel 2010. Obbligo di firma due volte a settimana dai carabinieri. Divieto di lasciare la provincia di Milano e di frequentare pregiudicati. Me ne guardo bene. Qualsiasi cosa, pur di chiudere il conto con la giustizia».

Di che vive?

«Commercio le vetture dismesse dopo due-tre anni dalle società di autonoleggio. Ci faccio dai 10.000 ai 15.000 euro al mese. Mi accontento di poco».

Chiamalo poco.

«Un’auto usata, acquistata all’asta, frutta in media sui 3.000 euro».

Com’è diventato un criminale?

«Un episodio ha segnato la mia infanzia. Quartiere Marianella di Napoli. Ero in vacanza, tornavo dalla spiaggia. Rinomata pasticceria, dove mia zia comprava i babà. Proprietario alto e grosso. Folla vociante. Accorro e vedo questo armadio d’uomo che preme con forza il piede sulla testa di un bambino steso per terra. Aveva beccato il ladruncolo mentre fuggiva e i dolci rubati erano finiti sul marciapiede. “Ora mangiali! Come fanno i cani!”, urlava l’energumeno. Il ragazzino cercava di afferrare un pasticcino con la bocca, ma non riusciva a trattenerlo. La gente rideva. Mi feci avanti e lanciai contro il pasticciere una manciata di monete, gridandogli: te li pago io i tuoi fottutissimi dolci, stronzo. E trascinai via il bambino. Da quel momento decisi che non sarebbe stata la vita a plasmare me, ma io a plasmare lei. E che nessuno, mai, mi avrebbe fatto nulla di simile».

La butta in psicoanalisi?

«Sono sempre stato egocentrico, irrequieto. Compivo imprese folli per attirare l’attenzione dei coetanei. A 13 anni rubai la prima auto, una Fiat 126. A 14 fregai la Talbot a mio padre. Non arrivavo manco al volante. Durante l’inseguimento, i carabinieri di Rozzano credevano che fosse guidata da un fantasma. Andavo a prelevare i prepotenti a casa e li picchiavo in presenza dei miei amici che avevano subìto qualche sgarbo. In prima media minacciai il professore di fisica davanti a tutta la classe. In terza abbandonai gli studi: ero troppo impegnato a trombare e a fare soldi. Però nel 2004 mi diplomai in ragioneria nel penitenziario di Pavia. E mentre ero recluso nel carcere speciale di San Gimignano m’iscrissi pure all’Università di Siena, facoltà di giurisprudenza».

Chi la arruolò nella delinquenza?

«A Rozzano vivevo in un condominione di via Europa, interamente abitato da meridionali e bazzicato da malavitosi napoletani e catanesi, che ci parcheggiavano i veicoli rubati. Oggi sono tutti ergastolani. Divenni la loro mascotte. Mi riempivano di regali in cambio del mio silenzio. Già allora adoravo il lusso: orologi, auto, abbigliamento griffato. Il primo arresto a un posto di blocco: io e un mio amico stavamo portando al sicuro una Jaguar e una Mercedes».

E poi?

«Per un periodo feci il pony express. Consegnavo pacchi ai Vip. Conobbi Jerry Calà, che mi arruolò come comparsa in un film. Capii come gira il mondo. Procuravo i bomber Moncler rubati ai paninari di piazza San Babila. Ero amico dei gestori dei locali della “Milano da bere”: Divina, Prima donna, Amnesia, Plastic, Hollywood. A Riccione divenni socio del Makkaroni e del Diabolik. Fondai un’agenzia di modelle, rifornivo di gogò l’Italia».

Sarebbero?

«Le attuali cubiste. Vendevo anche i primi striptease maschili. Francesco Lombardi, alias Ghibli, l’ho cresciuto io. Adesso è ispettore all’Asl di Rozzano».

Preoccupa che i Vip si rivolgessero a un malvivente per la loro sicurezza.

«Qualcuno non sapeva, qualcun altro faceva finta di niente. Johnny Depp, che conobbi nel 1997 a Miami, in Ocean Drive, ci ricavò un film. L’ha visto Blow?».

No.

«Racconta di George Jung, che organizzò il mercato americano della coca diventando il braccio destro di Pablo Escobar. Bè, quella è la storia della mia vita. E poi il malavitoso piace alle donne. A Ibiza ho pure avuto un flirt con l’attrice Emmanuelle Seigner, moglie di Roman Polanski. Però l’abbiamo fatto una sola volta, nella spiaggetta sotto la loro villa a picco sul mare. Per una donna ho rischiato di finire stecchito dagli scagnozzi di John Gotti junior, il figlio del capo storico della famiglia Gambino. Avevo offerto da bere a una bionda in un locale di Miami. È arrivato questo ragazzino fra due gorilla. “Lasciala perdere”, mi ha intimato. Perché, chi cazzo sei, Batman?, ho risposto io, strappandogli una risata. Siamo diventati amici».

Mai stato dedito allo sfruttamento della prostituzione?

«I macrò non li sopporto. E mai andato con una prostituta. Sono mamme, prima che donne. Quindi sacre. Purtroppo non sono riuscito ad amarne veramente neppure una. Non so che cosa significhi amare. Se qualcuno me lo spiega… Appena uscito per scadenza dei termini di custodia cautelare, ho messo incinta la mia compagna. Dopo tre mesi mi hanno rimesso dentro. Mi ritenevano pericoloso. Non mi perdonerò mai d’essermi perso tutta l’infanzia di mio figlio, che oggi ha 10 anni. Veniva a trovarmi in galera con la mamma. Gli avevo fatto credere che ero un imprenditore che costruiva prigioni. Mi sarebbe piaciuto espiare donando il midollo osseo a un piccolo leucemico, ma ero detenuto in regime di 41 bis e il giudice non me l’ha permesso. Il bambino è morto».

È stato tentato uccidere qualcuno?

«Sì. Mi ha trattenuto il senso degli affari. Sono stato processato per tutti i reati possibili: furto, ricettazione, traffico di stupefacenti, detenzione di armi ed esplosivi, estorsione, banda armata. Ma ci tengo a sottolineare che dalle accuse di tentato omicidio e associazione di stampo mafioso sono sempre stato assolto».

Ha trovato il modo di riparare a tutto il male che ha commesso?

«Quale male? La droga? E come facevo? Andavo appresso a tutti quelli che pippano per salvarli? Guardi, voglio tenermi basso: a Milano, la capitale della coca, il 60 per cento dei professionisti sniffa».

E come si procurano la neve?

«Non lo chieda a me. Io ero solo il primo anello della catena. La compravo in Colombia a 6.000 dollari il chilo e la rivendevo a 25.000 dollari. Che cosa accadeva dopo, non volevo saperlo. La cocaina non rientra fra i miei vizi e non tolleravo che neppure i miei collaboratori la assumessero. Il tossicomane è inaffidabile».

Però la vendeva.

«Una merce come un’altra. Lo Stato non traffica forse in alcol e tabacco?».

Strana etica, la sua. Ammesso che si possa parlare di etica.

«È l’etica della strada, che mette al primo posto l’autorità degli anziani. Per che cosa crede che a Napoli ci siano tutti quei morti ammazzati? Un tossicomane di 15 anni si alza dal letto la mattina e fa di testa sua, rapina, spara, uccide. Non prende ordini da nessuno, vuol comandare subito. Invece a Palermo o a Reggio Calabria mafia e ‘ndrangheta impongono il rispetto delle gerarchie».

C’è un modo per vincere la piaga della droga?

«La vera droga è il guadagno che procura. Una sete che non si placa, perché il denaro non basta mai. Più ne fai e più ne vuoi».
Ha letto Zero Zero Zero, il romanzo-inchiesta di Roberto Saviano sul traffico di cocaina?
«Io racconto ciò che ho vissuto. Saviano trascrive gli atti che gli mettono in mano i magistrati. Mi fa ridere. Non sa niente della coca, niente. È solo uno scribacchino che gioca con la vita degli agenti della sua scorta, costretti a proteggerlo per 1.200 euro al mese mentre lui incassa fiumi di diritti d’autore».

Non ha mai chiesto scusa a nessuno per tutto il male che ha commesso?

«A Dio. In galera l’unico rifugio è la fede. E poi a mio padre Ciro. Era conducente di bus all’Atm. L’ho fatto disperare. Veniva a trovarmi in tutti i penitenziari. Malato di tumore, ha resistito due mesi, fino a quando non sono uscito. Voleva vedermi libero. Sento che entrambi, Dio e mio padre, mi hanno perdonato».
(648. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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