F35, un caccia Usa sul futuro dell’Europa
Perché l’Italia quindici anni fa abbia deciso di aderire al progetto F-35, con un ruolo assolutamente secondario, nessun ritorno tecnologico e un ruolo industriale modesto è assai difficile da capire. Passati tre lustri, ora è il momento delle scelte definitive e salutare è stata la decisione del Parlamento di frenare sul piano di acquisto per capirne di più. La questione è complicata ed ha almeno tre piani di analisi tra i quali ci si deve districare. Il primo è se l’Italia deve avere un peso militare o meno. La maggioranza attuale e ciascuno dei due partiti principali che la compongono ritengono che debba averlo, per convinzione e per l’impegno che comporta l’adesione alla Nato. Essendo questa la posizione dell’Italia da molti decenni a questa parte, si passa al secondo piano, ovvero le risorse da impegnare per garantire questo peso e le scelte di investimento, in questo caso l’acquisto di cacciabombardieri per ammodernare la flotta aerea. Sul mercato si può scegliere e l’F35 è una delle possibili soluzioni, della quale si devono valutare in comparazione con le altre i costi di acquisto e di gestione, la validità del prodotto, la sua rispondenza alle esigenze di difesa. Il terzo piano è meno tecnico e più economico-strategico, ovvero le ricadute tecnologiche, industriali e occupazionali sull’Italia e sull’Europa. L’F35 non è stato provato da nessun pilota italiano, né di alcun altro paese
che non siano gli Stati Uniti, dove il progetto è stato sviluppato dalla multinazionale Lockheed Martin e adottato dal Pentagono. Dai piloti Usa che lo hanno provato sono venute più critiche che consensi. La Rand Corporation, una società di analisi strategiche collegata con la difesa americana, ha valutato sulla base di simulazioni che non sarebbe in grado di competere con il russo Su-35 e che avrebbe anche notevoli problemi di manovrabilità. Le critiche degli esperti si appuntano poi sulla autonomia limitata e sulla scarsa potenza di fuoco. A questo si aggiungono numerosi problemi tecnici che stanno rallentando la messa a punto del velivolo e aumentandone i costi. C’è poi il problema dei problemi: il concetto sul quale l’aereo è stato progettato è di renderlo invisibile ai radar. Ebbene, nei quindici anni passati dall’avvio del programma ad oggi c’è stata una notevole evoluzione delle tecnologie radar, infrarossi, laser e tv, per cui non si ha nessuna certezza sulla sua “invisibilità”. Il tutto a un costo di acquisto che oggi si aggira sui 150 milioni di dollari a pezzo, e di gestione che si calcola sia del 20% superiori a quelli di altri caccia. Sono queste le ragioni per le quali la Danimarca ha bloccato l’acquisto trasformandolo in una gara che si deciderà nel 2015 e alla quale concorreranno oltre all’F35 anche il Boeing F18 e l’Eurofighter; il Canada ha fatto lo stesso, affidando ad un’agenzia indipendente (non alla Difesa) una gara dove ai tre sopra elencati si aggiungerà il francese Rafale della Dassault; il Regno Unito, che pure è l’unico partner tecnologico e industriale del progetto, ha ridotto il suo ardine da 138 a 48 velivoli, e solo per le sue portaerei (come dovrebbe fare l’Italia per la Cavour); la Turchia ha bloccato tutto. A confermare gli acquisti preventivati sono stati fino ad oggi solo Israele e Giappone, per ragioni politiche evidenti, mentre anche la Corea del Sud ha preferito procedere con una gara. Nelle valutazioni che il Parlamento italiano dovrà fare se ne aggiunge un’altra, il terzo piano di cui sopra, ovvero le ricadute sul paese. Quelle dell’F35 sono poche, siamo partner del progetto di secondo livello, quindi all’Italia tocca solo la produzione di 800 ali e l’assemblaggio degli aerei che comprerà l’Italia e che eventualmente in futuro potrebbe comprare l’Olanda. Non c’è inoltre alcuna ricaduta tecnologica. E’ forse questo il punto più importante. Il programma Eurofigher ha visto coinvolti in qualità di partner a pieno titolo Regno Unito, Germania, Italia e Spagna, per ogni velivolo di questo tipo che si vende l’Italia ha la sua quota di produzione, ingegneria, avionica, elettronica, sistemi d’arma e di difesa, con ricadute industriali, occupazionali e tecnologiche rilevanti. In più i denari spesi per comprarli restano in Europa o (se esportati) arrivano in Europa. L’Eurofighter è una piattaforma aperta e molto flessibile, il cui aggiornamento è continuo. Essere parte di quel programma ha consentito all’industria aeronautica italiana l’accesso a tecnologie innovative (come i materiali compositi) per i quali il paese è tra i leader mondiali e che lo hanno portato tra i pochi protagonisti dell’industria aeronautica. La scelta dell’F35 vuol dire ridurre la forza del programma Eurofighter e quindi l’evoluzione ulteriore dell’industria italiana ed europea del settore. Un’ultima domanda meriterebbe una risposta: in cambio di che? Mentre Roma portava avanti la sua partecipazione al programma dell’F35 gli Stati Uniti bloccavano commesse già assegnate per aerei ed elicotteri italiani, né pare ci siano impegni sugli appalti futuri. Gli americani applicano con molta determinazione il “buy american”: un po’ di “buy european” all’Europa in crisi forse non farebbe male.
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