Films porno per salvare l’Amazonia

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1. BISOGNA SALVARE LE FORESTE PLUVIALI DEL SUD E CENTRO AMERICA E NON FREGA UNA MAZZA A NESSUNO? E ALLORA ECCO LA PRIMA ASSOCIAZIONE PORNO-AMBIENTALISTA! –

2.PER RACCOGLIERE FONDI, I SOCI DI “FUCK FOR FOREST” VENDONO FILM PORNO AMATORIALI GIRATI DAI SOCI. OGNI ANNO RIESCONO A RACCOGLIERE INTORNO AI 100MILA EURO –

3. LA FILOSOFIA DEL FONDATORE TOMMY: “IL SESSO VIENE UTILIZZATO PER VENDERE MOLTISSIMI OGGETTI INUTILI, PERCHÉ NON PUÒ FUNZIONARE ANCHE PER UNA BUONA CAUSA?” –

4. UNA VICENDA COSÌ PARTICOLARE E PICCANTE CHE IL REGISTA POLACCO MICHAL MARCZAK HA DECISO DI RACCONTARLA IN UN FILM DOCUMENTARIO, PRESENTATO PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA AL FESTIVAL CINEMAMBIENTE DI TORINO E AL MIX FESTIVAL DI MILANO –

Nadia Ferrigo per “la Stampa

banner_lastampa«Salvare il pianeta è sexy! Perché non eccitarsi per una giusta causa?». Ecco lo slogan della prima – e fino a ora unica – associazione porno-ambientalista, nata nel 2004 in Norvegia da un’idea della svedese Leona Johansson e del norvegese Tommy Hol Ellingsen. Il loro obiettivo è salvare le foreste pluviali del Sud e Centro America: per raccogliere i fondi necessari, niente volantini e raccolte di firme in città, ma film porno amatoriali girati dai soci dell’associazione e in vendita online.

Sarà l’amore per l’ambiente o puro voyeurismo, ma gli attivisti di «F*ck for forest» sono più di 1300. Condividendo con il resto del pianeta le loro avventure erotiche, riescono a raccogliere ogni anno una cifra che si aggira intorno ai 100mila euro, accumulata anche grazie a un abbonamento che con dieci dollari al mese permette di consultare il loro sterminato archivio erotico.

Una vicenda così particolare – e piccante – che il regista polacco Michal Marczak ha deciso di raccontarla in un film documentario, presentato per la prima volta in Italia al festival Cinemambiente di Torino e riproposto la settimana scorsa al Mix Festival di Milano. Marczak ha seguito gli attivisti per sette mesi, raccontandone avventure e contraddizioni.DSCN4418

La prima parte del film è ambientata in Norvegia, dove per qualche tempo l’associazione ha avuto anche l’appoggio del governo. Un sodalizio infranto da una «performance» improvvisata dagli attivisti durante un festival di musica norvegese. Finito in tribunale per oscenità, uno dei fondatori ha deciso di mostrarsi senza veli davanti ai giudici, per convincere anche loro dalla «bellezza della nudità». Da qui la decisione del gruppo di trasferirsi a Berlino.

Nella seconda parte del documentario, gli attivisti raggiungono le popolazioni indigene, prima a Manaus, in Brasile, nel cuore della foresta Amazzonica, poi a Leticia in Colombia e fino a Pevas in Perù. Gli indios però rifiutano il loro aiuto, rivendicando la loro indipendenza: non vogliono soldi, ma solo un lavoro.

«Davvero non voglio giudicare il gruppo – ha dichiarato il regista al quotidiano britannico The Guardian – ma la mia prima reazione è stata pensare a come potessero pensare di salvare il mondo, se non sanno aiutarsi nemmeno tra di loro. Non organizzano mai niente, nemmeno quel che faranno il giorno dopo. Non ci sono regole. È questo è anche quel che più mi ha affascinato».

Alcune associazioni ambientaliste, come WWF e Arbofilia, che si occupa della deforestazione in Costa Rica, hanno deciso di non collaborare più con FFF, rifiutando le loro donazioni. Il gruppo però qualche risultato l’ha ottenuto.

«Il loro sito contiene rendiconti precisi di come vengono spesi i soldi delle donazioni e negli anni passati hanno avviato dei progetti con alcune popolazioni indigene tra il Brasile e il Perù – spiega Marczak -. Il documentario mostra anche il loro stile di vita assolutamente frugale, vivono raccogliendo per strada cibo e vestiti. Anche la loro scelta di finanziare piccoli progetti, entrando in contatto diretto con la popolazione indigena non è sbagliata, così evitano di disperdere le risorse, come spesso succede alle grandi associazioni internazionali».

Dopo l’uscita del documentario, gli attivisti hanno replicato: «Sono stati il regista e il produttore del film a scegliere le tribù, che noi non conoscevamo. Abbiamo lavorato per otto anni con i popoli nativi del Sud America, sappiamo molto di loro. Se fossimo stati noi a organizzare il viaggio, l’esito sarebbe stato diverso».

Il gruppo, nonostante le numerose critiche ricevute dopo la proiezione del documentario, continua nella sua attività, fedele alla filosofia del fondatore Tommy: «Il sesso viene utilizzato per vendere moltissimi oggetti inutili, perché non può funzionare anche per una buona causa?».

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