«Tutto è accaduto nella notte tra il 28 e il 29 maggio. A mezzanotte. Stavo dormendo nella camera dei bambini con mia figlia. Fui svegliata da un forte rumore. C’erano delle persone che picchiavano contro le finestre e alla porta. Eravamo molto spaventati, sembrava che un tornado o un terremoto stesse scuotendo la casa». Così inizia il memoriale con cui Alma Shalabayeva , moglie dell’uomo d’affari e oppositore politico kazako Mukhtar Ablyazov, racconta la notte in cui lei e sua figlia sono state prelevate, alla fine di maggio, dalla casa in cui vivevano a Casal Palocco e poi rimpatriate in Kazakistan. Un resoconto datato 22 giugno, scritto dalla donna in russo e consegnato dai suoi legali al Financial Times che lo ha tradotto in inglese e pubblicato sul suo sito: un documento che ripercorre, in 18 pagine, punto per punto cosa è accaduto, secondo Shalabayeva, dal 29 al 31 maggio (guarda la ricostruzione di Corriere.it).
L’IRRUZIONE – Si parte dal racconto dell’irruzione e del blitz. Shalabayeva spiega di aver aperto la porta e di essersi trovata davanti una cinquantina di persone. «In 30-35 sono entrati in casa» scrive nel memoriale sottolineando come, dall’abbigliamento e dai modi, non riuscisse a capire chi fossero quegli uomini che nella notte erano arrivati a bussare alla sue finestre. «Erano vestiti di nero. Alcuni di loro avevano catene d’oro al collo, molti avevano la barba, uno un capigliatura punk con una cresta». L’irruzione nel cuore della notte, spaventa molto la donna che, insieme alla sorella e al cognato, non riesce a capire cosa stia accadendo. «Non avevano nessun segno esterno da cui si potesse capire che erano poliziotti e militari. Ma tutti avevano delle pistole e parlavano tra loro in italiano – scrive – Andavano in giro per tutta la casa e l’impressione è che stessero cercando qualcosa o qualcuno».
«PUTTANA RUSSA» – Secondo quanto scritto nel memoriale, all’irruzione partecjpa anche una donna, «sulla trentina», che ha il compito di seguirla in giro per la casa. Quando Shalabayeva capisce che quegli uomini stanno cercando il marito Mukhtar Ablyazov, viene presa dal panico. «In quel momento ho avuto la certezza che ci avrebbero ucciso», racconta. Poi spiega che, facendosi coraggio, cerca di capire chi sono quelle persone: chiede loro se siano poliziotti o altro. A quel punto le viene mostrato una tessera di riconoscimento. Poi iniziano le domande. «Il capo del gruppo mi chiese chi ero». Shalabayeva ha paura a dare le sue generalità, teme che portino via la figlia – che ha lo stesso cognome del padre- e quindi prova a mentire. Dichiara di essere russa. «“Sono russa”, risposi – scrive ancora nel memoriale – A quel punto, un italiano che sembrava un mafioso, con una grossa catena d’oro al collo, iniziò ad urlare contro di me. Sembrava che volesse colpirmi. Ho avuto paura che mi avrebbe ucciso. Urlava in italiano e l’unica cosa che ho potuto capire era che gridava “Puttana russa”. Ero sotto choc». Poi ad un certo punto gli uomini le ordinano di vestirsi e di venire via: «Con me non avevo nè soldi, nè documenti, non avevo un avvocato nè un interprete».
DAL CIE ALL’ESPULSIONE – Segue quindi la ricostruzione dei giorni successivi, un racconto che conferma quanto emerso fino ad oggi aggiungendo però numerosi dettagli a quello che ormai è diventato un intrigo internazionale su cui il premier Letta ha chiesto un’indagine. Il trasferimento prima in una stazione di polizia da dove – secondo il racconto di Shalabayeva – il cognato sarebbe uscito un «labbro rotto» ( «A un certo punto hanno portato Bolat nella stanza – scrive la donna- Aveva un occhio rosso e gonfio, un labbro rotto, una ferita al naso. Disse che lo avevano pestato»), poi all’ufficio Immigrazione, quindi al Cie di Ponte Galeria. Infine all’aeroporto di Ciampino dove Shalabayeva viene imbarcata – insieme alla figlia – su un jet privato che la riporta ad Astana.
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