Guido Olimpio per Il Corriere della Sera
Un programma di ricerche iniziato con l’aiuto di Paesi alleati e occidentali, poi lo sviluppo di un proprio arsenale attraverso una mezza dozzina di impianti sparsi sul territorio. I siriani hanno lanciato il piano per dotarsi di armi chimiche negli anni 70 grazie all’assistenza dell’Egitto che, a sua volta, aveva ricevuto il sostegno dell’Urss.
Successivamente Damasco ha ampliato la rete di cooperazione e ha avuto l’assistenza – ben pagata – di numerosi Stati. Corea del Nord, Germania, Francia e Iran hanno passato la tecnologia indispensabile a perfezionare gli apparati. Acquisti gestiti da un ufficio approvvigionamenti mascherato da centro scientifico con punti d’appoggio anche in Europa occidentale.
Fondamentale – secondo l’analisi Usa – l’appoggio di Teheran. I pasdaran e i volontari hanno sperimentato sulla loro pelle gli attacchi non convenzionali iracheni durante il lungo conflitto (1980-88). Perdite pesanti che li hanno spinti ad ampliare i loro depositi militari per rispondere con la stessa carta. E, in seguito, a passare la conoscenza all’alleato siriano.
I dittatori della regione, poi, hanno imparato la tattica di Saddam Hussein. Per piegare gli oppositori – in particolare i curdi – il raìs di Bagdad non ha esitato a colpirli con i gas. Uno sterminio sistematico, con migliaia di vittime, nella cornice nera dell’Operazione Anfal. Una pagina terribile testimoniata dal massacro di Hallabja, con bimbi e donne portate via dalla morte invisibile nel marzo 1988. Un esempio di come si possano punire, su larga scala, gli avversari del potere.
Gli Assad, prima il padre Hafez e poi il figlio Bashar, hanno a loro volta costruito l’arsenale avendo in mente due esigenze. La prima strategica. Non potendo sostenere il confronto tradizionale con il nemico Israele, i siriani hanno deciso di dotarsi di gas letali, tra i quali il nervino. Mezzi da usare in caso di uno scontro totale.
La seconda esigenza, emersa solo in seguito e con l’acutizzarsi della rivolta, è invece legata alla sopravvivenza stessa del regime. Se gli insorti dovessero avanzare in modo minaccioso, il clan alawita vuole essere in grado di fermarli, spazzando via tanto i militanti che la popolazione ostile.
Le analisi dell’intelligence americana sostengono che la Siria può contare su 5-6 impianti dove sono messi a punto i «veleni», laboratori presenti nel nord e nella zona della capitale. Homs, Al Safira, Latakia, Hama, Palmyra e Damasco sono tra i siti indicati dallo spionaggio statunitense come luoghi dove sono «studiati» i gas.
Quanto ai vettori per lanciarle, i siriani possono usare vecchie bombe, missili terra-terra Scud e razzi Grad, poco precisi ma facili da produrre. Il controllo è affidato a unità scelte della Guardia repubblicana e composte esclusivamente da uomini della comunità alawita, la stessa del presidente. Di solito, le cariche chimiche sono tenute separate dagli ordigni e, solo in caso di necessità, sono assemblate insieme.
Un passo che può essere intercettato dall’intelligence Usa e israeliana, entrambe vigili sulle mosse siriane. Al punto che il Pentagono, insieme a Francia e Gran Bretagna, ha elaborato piani di intervento per mettere in sicurezza i depositi. Operazione rischiosa che comporterebbe l’intervento di migliaia di uomini.
Gerusalemme ha invece svolto esercitazioni ad hoc e condotto un intenso monitoraggio degli impianti siriani. La paura è che Damasco non solo usi i gas ma che li possa trasferire agli amici Hezbollah. Una grana in più per una regione ormai in fiamme.
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