E’ un “dettaglio” emerso quando la commissione, il 1° agosto scorso, ha affrontato il delicato tema dell’operatività dei super-caccia già oggetto di critiche a livello internazionale che hanno portato a disdette e riduzioni degli acquisti da parte dei paesi aderenti al programma. A spiegarlo è stato uno dei massimi esperti in materia, Michele Nones, dagli anni ’80 consulente del governo in materia di acquisto di programmi d’arma e oggi direttore dell’area Sicurezza e difesa dell’Istituto Affari Internazionali (AIA). Non un detrattore del programma d’armamento ma un sostenitore “tecnico” della prima ora.
E’ stato Nones a indicare ai deputati della IV Commissione la probabilità che solo una parte dei micidiali caccia possa effettivamente alzarsi in volo ed entrare in esercizio. L’esperto parte dagli attuali 221 velivoliin dotazione alla Difesa che saranno in parte sostituiti dagli F35. Nel suo intervento spiega che in realtà quel numero è da considerarsi del tutto aleatorio perché “credo che al momento ne avremo solo la metà in condizioni di volare”. E la spiegazione è semplice, ancorché disarmante: “Nella politica degli armamenti funziona così: si comprano 10 unità sapendo in partenza che tre funzionano e le altre sette sono in manutenzione o in revisione o difettose o non in grado di essere mantenute a causa dei costi”.
E allora gli F35? Quanti potrebbero rimanere a terra nonostante siano i velivoli più evoluti e costosi della storia? “Il nuovo velivolo (F35, ndr) assicura un’operatività molto superiore a quella attuale che punta almeno al 75%, quindi su 100 velivoli 75 devono volare”. In altre parole per avere 75 super-caccia in esercizio tocca comprarne 90, un paradosso soprattutto per modelli che la pubblicistica militare proponeva come la punta di diamante della tecnologia disponibile. In realtà, spiega Nones, il problema interseca anche il modo tutto italiano di procedere alle commesse d’armi (e non solo): “A me sembra che sia proprio una brutta abitudine italiana, come per le scuole: costruiamo edifici splendidi. Siccome, però, nessuno ha previsto le spese di manutenzione, dopo due anni nelle università, dove magari il primo giorno funziona tutto, non ci sono i soldi per riparare i computer, non funziona il visore, non c’è neanche la carta igienica e siamo a livelli inauditi. Bisogna che impariamo a gestire bene ciò su cui investiamo il denaro dei nostri contribuenti”.
Tocca solo mettersi d’accordo sul fatto che sia più oculato non imbarcare affatto il rischio o sperare in ritorni economici industriali dall’operazione, nonostante il rischio di veder vanificato a terra parte dell’investimento. “Il ritorno industriale – spiega Nones – è una grande scommessa. Non è, infatti, sulla produzione dell’F35 che misureremo i ritorni, ovvero i vantaggi tecnologici industriali per l’Italia, ma sulla fase di manutenzione e supporto logistico. Ho 63 anni e i capelli bianchi, e stiamo parlando di qualcosa che penso forse vedremo tra 10, 12, addirittura 15 anni. Molti di voi sono più giovani, quindi potranno verificare. È stata una scommessa vinta o persa? Non lo so. Potranno verificarlo altri. Se, però, sarà vinta, lo sarà perché avremo la possibilità di lavorare sul supporto logistico del velivolo non solo italiano, quindi non dei novanta velivoli italiani, ma delle centinaia di velivoli che saranno in circolazione in Europa”.
E in questo Nones potrebbe non avere tutti i torti, visti i problemi che gli F35 hanno mostrato ancora in fase di collaudo. Alla fine, i nuovi caccia sarebbero un investimento a perdere: l’Italia li compra nella speranza che non si alzino mai, chi per ragioni di Pace, chi per ragioni di portafoglio.
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