Giuliano Amato disse alla testimone “Non fare i nomi, zitta con i giudici”

giuliano amato

In una telefonata del 1990 il neo giudice costituzionale chiede alla vedova di un dirigente socialista di non fare i nomi dei protagonisti di una tangente di 270 milioni di lire. Dice: “Tirati fuori da questa storia”

di Emiliano Liuzzi | 15 settembre 2013

banner il_fatto quotidianoGiuliano Amato nella veste di minimizzatore, all’epoca deputato e vicesegretario del Psi di Bettino Craxi, è importante: 21 settembre 1990. Non c’è ancora nessuna Tangentopoli, ma le mazzette ci sono eccome. È qui che Amato, all’epocadottor Sottile, come lo ribattezzò Giampaolo Pansa, mette il naso e molto di più. Chiama la moglie di un senatore socialista, Paolo Barsacchi, già sottosegretario, morto quattro anni prima. Barsacchi, nonostante non possa più difendersi, è accusato dai vecchi compagni di partito di essere l’uomo a cui finì la tangente di270 milioni di lire per la costruzione della nuova pretura di Viareggio. La vedova del senatore, Anna Maria Gemignani, non vuole che il nome del marito, solo perché è deceduto e non perseguibile, finisca nel fascicolo dei magistrati. E minaccia di fare nomi e cognomi.

È a questo punto che Amato la chiama e, secondo i giudici, lo fa con uno scopo: evitare “una frittata”, intendendo per tale – scrivono i giudici del tribunale di Pisa Alberto Bargagna, Carmelo Solarino e Alberto De Palma a dicembre di quello stesso anno – “un capitombolo complessivo del Partito socialista”. I giudici vanno anche oltre e, nelle motivazioni della sentenza che condannerà i responsabili di quella tangente, si chiedono come mai “nessuno di questi eminenti uomini politici come Giuliano Vassalli(all’epoca ministro della giustizia) e Amato stesso, si siano sentiti in dovere di verificare tra i documenti della segreteria del partito per quali strade da Viareggio arrivarono a Roma finanziamenti ricollegabili alla tangente della pretura di Viareggio”. Lo scrivono, nero su bianco, il momento in cui condannano per la tangente i boss della Versilia del Psi e scagionano loro stessi la figura del senatore Barsacchi.

La telefonata, dicevamo. E quel 21 settembre 1990. È quel giorno che Amato chiama la vedova di Barsacchi e si trattiene al telefono con lei per 11 minuti e 49 secondi. Amato cerca la sua interlocutrice, poi è lei che lo richiama, registra e consegna il nastro, di cui il Fatto Quotidiano è in possesso, ai magistrati. Che acquisiscono la telefonata come prova, un’intercettazione indiretta, ma inserita nel fascicolo processuale. “Anna Maria, scusami, ma stavo curandomi la discopatia, ma vedo che questa situazione qui si è arroventata”. Dall’altra parte la vedova tace. Poi dice solo: “Ti ascolto”. Amato, con voce imbarazzata come lo sarà per il resto della telefonata, va dritto al problema: “La mia impressione è che qui rischiamo di andare incontro a una frittata generale per avventatezze, per linee difensive che lasciano aperti un sacco di problemi dal tuo punto di vista”. La frittata alla quale Amato fa riferimento è appunto un coinvolgimento – come dirà esplicitamente – di altre persone nel processo. “Troverei giusto che tu direttamente o indirettamente entrassi in quel maledetto processo e dicessi che quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto. Non è vero. Ma senza andare a fare un’operazione che va a fare quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in questa storia non c’entra. Questo è legittimo. Ma a… a… a… a Viareggio hanno creato questo clima vergognoso, è una reciproca caccia alle streghe, io troverei molto bello che tu da questa storia ti tirassi fuori”.

Insomma Amato, oggi giudice della Corte costituzionale, all’epoca notabile del partito più corrotto d’Italia, il Psi, non dice vai e racconta la verità. Ma vai e non fare nomi. Tirati fuori. Non dire quello che sai, poi accerteranno i giudici. Difendi l’onore di tuo marito con un “lui non c’entra”. Diciamo che sarebbe stato poco, e il tribunale non si sarebbe accontentato, ovvio. Ma questo l’attuale giudice Amato le dice di fare: non raccontare tutto quello che conosce, come vorrebbe la legge sotto giuramento, ma esprimere una verità parziale.

Ancora più interessante il passaggio in cui – e ci arriviamo tra poco – Amato ammette di sapere più o meno chi sono i responsabili di un’azione illegale, ma invita a chiamarsi fuori. E quando verrà lui stesso trascinato a testimoniare non aggiungerà niente. Alla fine, come titolò all’epoca dei fatti la Nazione: Pretura d’oro, colpa dei morti. Insomma. Colpa di Barsacchi, che la moglie cerca in ogni modo di difendere e alla fine, nonostante i consigli di Amato, ci riuscirà.

La moglie di Barsacchi al telefono dice una cosa sola all’onorevole Amato, e lo fa tirando un grosso respiro per non sfogarsi ulteriormente: “Giuliano, io voglio soltanto che chi sa la verità la dica”. E Amato replica: “Ma vattelapesca chi la sa e qual è. Tu hai capito chi ha fatto qualcosa?”. “Io”, risponde lei all’illustre interlocutore, “penso che tu l’abbia capito anche te”. E Amato: “Ma per qualcuno forse dei locali sì, ma io non lo so, non lo so. Ma vedi, noi ci muoviamo su cose diverse. Questo non è un processo contro Paolo, ma contro altri”.

Il 13 dicembre del 1990 i responsabili della tangente verranno condannati. Tra loro Walter De Ninno, due anni e mezzo per ricettazione nei confronti di un imprenditore di Pisa. È l’inizio di Tangentopoli. E della fine del Partito socialista.

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