Dalle ginocchia di Andy Warhol, Sofia non è mai scesa: “C’è molta strana gente nella mia famiglia”, dice. E descrivendo i pomeriggi trascorsi a osservare il profilo di Marlon Brando nel patio di casa e i vitigni della Napa Valley all’orizzonte, la Coppola del ’71 stende un parco sorriso e si ubriaca di ricordi aprendo la bottiglia della riconoscenza: “Sono stata facilitata e dalla discendenza ho avuto significativi vantaggi – ammette – ma dopo aver imparato moltissimo, ho provato a sdebitarmi con il suono della mia voce”.
Cinque film molto personali che la figlia di Eleanor e Francis Ford, pronta a giurare sulla sua adolescenza normale da erede designata, ha dedicato spesso all’ossessione della fama e all’età acerba. Nell’ultimo, Bling Ring (nelle sale dal 26 settembre in 300 copie distribuite da Lucky Red), la curiosità di Sofia Coppola fissa le razzie di un gruppo di minorenni annoiati nelle praterie patinate di Hollywood. Paris Hilton, Lindsay Lohan, Audrina Patridge. Dalle case incustodite delle stelle create a tavolino, spariscono borse, vestiti e gioielli fino a quando, come in uno specchio rovesciato, l’ansia di farsi scoprire comunicando al mondo la prodezza mette in copertina i ladri e i derubati nelle retrovie. Il prezzo è la galera, ma finire in gabbia ai nostri tempi, suggerisce la bella ragazza dai tratti irregolari che beve tè, vive a Parigi e di politica non vuol parlare: “Obama mi è simpatico ma oltre non vado” è la più mediatica e remunerativa delle medaglie.
Ha qualcosa in comune con gli adolescenti di Bling Ring?
Dire “ci sono, la penso così, non sono d’accordo” a 15 anni, è molto più difficile che omologarsi. Vuoi capire chi sei, desideri essere accettato, fai molte sciocchezze, segui la logica del branco e come respiri, sbagli. È capitato anche a me. Ho vissuto l’esaltazione del gruppo, la fatica mostruosa di tutte le linee d’ombra da superare in solitudine e anche l’alienazione che tocca in sorte a chi cerca un proprio posto nel mondo e sembra non star bene da nessuna parte. Però, nonostante tutto, i miei personaggi non mi somigliano. Mi sono estranei. Non sarei potuta mai entrare nell’universo di Paris Hilton. Neanche volendo.
L’avrebbe desiderato?
Vengo da un’altra generazione. Mi fa impressione dirlo, ma in qualche modo sto invecchiando. Ho figli. Sono dall’altra parte della barricata. Sosto tra quelli che al dominio dei reality, dei social network e della cultura globale dell’apparenza messa in scena in rete e in tv, assistono preoccupati.
Nonostante la distanza conclamata, come in altri suoi film, anche in Bling Ring non c’è traccia di moralismo.
Lo rifiuto, mi annoia. Come mi annoia l’idea che un regista giudichi con gli strumenti di una presunta superiorità morale l’oggetto del suo interesse. La realtà esiste. Se la spieghi, la modifichi. Anche se giri un film. Soprattutto se fai un’opera di finzione.
Lei ha iniziato come attrice. Per paradosso, avrebbe potuto persino ritrovarsi tra le icone venerate dai ragazzini di Bling Ring.
Un paradosso che escludo. Della mia vita sentimentale, dei miei fidanzati o delle mie separazioni, ai tabloid americani non importa e non è mai importato nulla. Come vi ho detto, in assoluto non amo giudicare, ma in questi primi 42 anni ho seguito un percorso diverso da chi mette ogni giorno la propria privacy in piazza. Sono meno smarrita che a 20 anni e anche se esiste una parte di me che cerca ancora qualcosa, so che per trovarla non andrei mai ad autopromuovermi in tv. Preferisco il contatto reale e allo schermo di un computer, un viso.
Una forma di snobismo?
Non credo che essere introversi o comportarsi diversamente dai tanti che sognano di diventar famosi senza saper far nulla equivalga a essere snob. La cultura Pop è un dato di fatto. Darsi in pasto alla morbosità, un’opzione legittima. Ma non è la mia.
Come ha trovato la sua strada?
Ho viaggiato ovunque e anche se non pensavo a mio padre come a un premio Oscar e di lui ho i ricordi che una figlia dovrebbe avere, non c’è dubbio che il percorso fosse anche inconsciamente segnato. Ho mangiato cinema. Come tanti altri genitori, papà mi ha insegnato a giocare a dadi e mi ha portato un gelato per lenire un mal di gola, ma soprattutto, mi ha fatto conoscere il set. Un circo nel quale, letteralmente, durante il Padrino venni anche battezzata. Diceva che avere dei bambini intorno, quando si lavora, rende il lavoro meno angosciante. Lo ringrazio, mi sono divertita.
Siete tantissimi, voi Coppola. Capita anche che qualcuno si senta soffocare e per emergere, prendiamo Nicolas Cage, cambi addirittura cognome. È stata tentata dall’imitazione?
Non ci ho mai pensato, ma capisco benissimo la sua volontà di farsi conoscere e apprezzare per quello che vale senza debiti o fardelli. Noi Coppola siamo molto legati, ma portare un cognome simile, se fai cinema, può essere un peso.
Il prossimo film sarà in Italia?
Per ora il prossimo film non c’è. Stacco sempre tra un lavoro e l’altro. Se ci sarà una storia ne sarò felice. Vengo spesso. Qui incontro eleganza, raffinatezza, cultura e storia, tutto quello che in America non trovo.
Ricorda il Festival casalingo e tutto familiare che organizzò suo padre?
È successo molto tempo fa, e anche se mi imbarazza, non posso dimenticare. (Sorride). A ogni componente della famiglia toccò scrivere e recitare un atto unico a teatro. Il mio si basava su un racconto di Fitzgerald. Come protagonista scelsi mio cugino Jason Schwartzman che all’epoca aveva 16 anni e faceva il musicista.
Il ruolo gli ha portato bene.
Per Jason non è stato sicuramente il punto di svolta, anche se tutti prima o poi ne incontrano uno.
Lei l’ha incontrato con Lost in Translation. Bill Murray e Scarlett Johansson in un albergo di Tokyo. Un incasso da 120 milioni di dollari, l’Oscar per la sceneggiatura, più di 70 premi, il successo definitivo.
È strano ripensarci. Mi ritrovai a fare l’attrice senza averlo mai desiderato. Poi, una volta deciso di cambiare mestiere, per convincere i critici che non ero soltanto la figlia di mio padre, mi bastò un film. Non mi avevano mai preso sul serio. Fu una sorpresa.
Il Giardino delle vergini suicide.
Avevo 28 anni, lo presentammo a Cannes e andò bene. Fu persino più importante di Lost in Translation o del Leone d’oro per Somewhere a cui sono molto affezionata. Era il mio primo lavoro. Mi mettevo alla prova. Era come dire all’improvviso: “Sono Sofia, non solo un membro onorario della mia famiglia”.
…….
E’ facile entrare nelle case dei ricchi, lasciano le chiavi sotto lo zerbino, le auto aperte, si sentono intoccabili, ed e’ ancor più facile far man bassa delle loro scarpe Louboutin, degli abiti, dei gioielli, dei rolex. La banda di Marc e Rebecca, che presto si allarga alla superstronza Emma Watson, bravissima, con mamma pazza religiosa che non tace mai, e un paio di biondine scombinate, non vuole rubare gli oggetti delle star, vorrebbe rubare le loro vite.
Vuole respirare l’aria che loro stesse respirano. Sofia Coppola riprende le atmosfere della Los Angeles decadente del suo “Somewhere” e l’aggressivita’ senza redenzione delle “Spring breakers” di Harmony Korine, forse senza un vero punto di vista morale. E’ tutto superficie, tutto vetrine e vetrine di ambienti e di scarpe.
Tenero, lieve, a tratti bellissimo, e’ il viaggio verso un cafonal americano che non accetta il trombonismo di un regista fanatico di eccessi visivi alla Sorrentino, ma neanche la vitalita’ di Korine. Quasi un documentario su come si muovono i ragazzi cresciuti a vip e reality. Piuttosto bello, direi. Grandiosa Emma Watson.
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