NAPOLI — Il titolarissimo della camorra si chiama Marco Di Lauro, figlio del boss. Non ha saltato una partita, neppure quando era latitante. «Ha sempre giocato», stando almeno a ciò che dice il pentito Armando De Rosa. Che ai pm delle Procure antimafia di Roma e Napoli racconta una storia che, se fosse vera, avrebbe del paradossale. I clan più feroci della città, rivela infatti il collaboratore di giustizia, dal 2002 si sono dati appuntamento ogni anno per un torneo di calcetto, nonostante i quartieri blindati, le operazioni di intelligence e il dispiegamento di uomini e mezzi messi in campo per contrastare l’escalation criminale. Loro, nel frattempo, giocavano a pallone. E non per sport, s’intende. Quello a cui miravano era il premio finale, che nei feudi dei clan non è una coppa o uno scudetto, ma dosi di droga purissima da tagliare e rivendere sul mercato.
Questa storia, a scriverla e a leggerla, è scivolosa come può esserlo un campo in erba sintetica. Ché — a immaginarseli affannati dietro un pallone — uno rischia di umanizzare boss e gregari, di normalizzarli, di banalizzarli. O, peggio, di ridurre a «gioco» una delle più sanguinose faide che la storia di camorra ricordi, quella di Scampia. È bene ricordare, invece, che i protagonisti di questo racconto sono capiclan, killer, spacciatori. Gente che ha ucciso il fratello o il miglior amico pur di strappare dieci euro in più di proventi criminali. Persone che possono passare alla storia nera di Napoli in tutti i modi, ma non certo come dei simpaticoni che si ritrovano per una partitella tra amici. Allo stesso tempo, però, raccontare di questi criminali che organizzano sfide di calcetto tra un omicidio e l’altro fotografa meglio d’ogni analisi sociologica e criminale la freddezza di camorristi senza scrupoli, che — con cinismo a volte impensabile — sono capaci d’alternare assist e gol a una trattativa per l’acquisto di un «fucile di precisione con cannocchiale» e alla compilazione di «liste della morte» con i nomi dei nemici.
La storia del torneo l’ha rivelata Armando De Rosa, pentito già noto alle cronache per aver rivelato che l’attaccante del Milan Mario Balotelli si sarebbe «divertito» a spacciare droga per gioco a Scampia nel 2010. Un’accusa senza riscontri, duramente smentita dal calciatore («La droga la odio, questa persona ha detto una bugia incredibile»), e che ha indotto i magistrati a procedere con i piedi di piombo anche in questo caso. Le nuove dichiarazioni di Armando De Rosa (riportate ieri dal giornalista Fabio Postiglione sul Roma) sono state rilasciate durante un interrogatorio negli uffici della Procura antimafia di Roma iniziato alle 14.37 del 25 marzo 2013, alla presenza di ben cinque pm: i sostituti napoletani Stefania Castaldi, Vincenza Marra e Maurizio De Marco, e i magistrati della Capitale Barbara Sargenti e Delia Cardia.
A loro il pentito, classe ’80, racconta di delitti, alleanze, armi, traffico di droga. E di quel «torneo che si tiene al campetto di calcio Wimbledon, di fronte alle Case Celesti, in via Limitone d’Arzano», dove «ogni clan fa una squadra. Il primo torneo che ricordo è quello dell’estate del 2002, a cui partecipai. Per il rione Monterosa giocava Antonio Pica, tale Ronaldo e altri che non ricordo, ma comunque affiliati alla stessa cosca». Non tutti i calciatori però erano organici ai clan. Il motivo? I boss, pur di mettere le mani su quello scudetto fatto di pacchi di droga, riempivano le loro squadre di (semi)professionisti: «C’era quella di Luigi Alberti della Vela Gialla — prosegue il collaboratore di giustizia — in cui giocavano molti ragazzi di Fuorigrotta, non malavitosi, provenienti dalle serie cadette dell’hinterland napoletano». E «anche la squadra di Paolo Abbatiello del clan Licciardi era composta da ragazzi estranei» alla criminalità, così come «quella di Carmine Pagano, che aveva una squadra per conto suo: quelli che partecipavano al torneo erano della sua zona e non camorristi».
Ragazzi «provenienti da squadre di calcio», infatti, militavano anche «nella squadra di Vincenzo Di Lauro». È il secondo dei figli del boss Paolo, il signore della faida arrestato il 16 settembre 2005. E non era l’unico di famiglia a giocare su quel campetto, ché «i Di Lauro di squadre ne avevano due». Una, appunto, era quella di Vincenzo (sarà catturato il 27 marzo 2007), l’altra era di Marco, che sul brogliaccio delle spese del clan era indicato come «F4», cioè «figlio quattro» del superboss. Marco Di Lauro è latitante dal 7 dicembre 2004, ma «sicuramente giocava». Insomma, chi controllava rione Monterosa, Vela Gialla e Rione dei Fiori partecipava al torneo, «facendo solo la squadra» o giocando. «Così ho conosciuto i capi», chiosa il pentito.
E dunque — a sentire Raffaele Cantone, giudice di Cassazione, ex pm anticamorra a Napoli, uno che sul rapporto tra boss e pallone ci ha scritto un libro (Football clan) — «non si sa se ridere o piangere», ché «se fosse vero quel che racconta il collaboratore, e sottolineo il se, è evidente che pericolosi criminali si sono riuniti insieme più d’una volta. Ora, com’è stato possibile che ciò sia avvenuto senza che nessuno abbia avuto notizia di questi eventi? Il collaboratore dice che molti calciatori non erano camorristi? Questo dimostra quanto sia estesa la zona grigia che circonda i clan, e mi riferisco anche al fatto che nessuno abbia fatto una telefonata, magari anonima, per segnalare la presenza di quei soggetti sul campo, soprattutto se è vero che a giocare c’era uno come Marco Di Lauro, non propriamente uno sconosciuto». Il racconto del pentito, dunque, se può essere una traccia labile dal punto di vista penale, è «assolutamente interessante dal punto di vista criminale, perché sintomatico del livello di controllo del territorio, delle connivenze e del consenso dei clan». E, sempre a voler dare per vere quelle dichiarazioni, «un affare che porta morte, cioè la vendita di droga, si assegna con il gioco più bello del mondo. Ecco, è questa la banalità del male».
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