Stamane c’è il sole nella mia città. Ma non scalda, non sorride come quasi sempre. Anche lui magari si vergogna di essersi nascosto quando dal cielo si è scatenato l’inferno, quando la morte e la disfatta si è impadronita dei nostri corpi e delle nostre anime. Un incubo, di quelli che hai sempre pensato potessero riguardare solo gli altri, perché li hai visti tante volte in televisione o li hai letti sui giornali e ti hanno mosso a compassione e solidarietà umana. Ma quando tocca a te… è davvero un’altra cosa.
Nella città morta, stamane giri come un appestato senza più patria, senza più meta. Ti muovi per andare incontro alla tua stravolta quotidianità. E non trovi il giornale, non c’è neppure Mario per la mia colazione, il suo bar invaso dal fango ha la saracinesca chiusa. Devo pagare una cambiale e la mia banca è chiusa. Spariti i giornali, negozi ed esercizi chiusi, le sirene sempre accese, elicotteri in sorvolo di controllo (de che? direbbero a Roma) gli studenti rintanati in casa senza scuola e, per un attimo, senza più risposte al loro domani.
Senti lo sciabordio di quelle centinaia di autobotti che adesso, dopo la risacca della mota, di acquaccia e di mondezza che l’hanno assediata per tutta la sera e la notte di ieri, provvedono a liberare le cantine, le case, i negozi riversando i rimasugli della disperazione. Ancora una volta sulle strade, dove agonizzante si muove uno stanco e silenzioso traffico del niente. In tutti i quartieri, alle case popolari, di sicuro perché costruite più in basso del livello del mare, ma in tutti i quartieri la città è esangue.
“Un ciclone così? ne capita uno ogni mille anni”. Ah, meno male, così sì che ci sentiamo tutti più risollevati. L’abbiamo chiamato persino con il toponimo della più illustre delle Escort (volgarmente Troia) dell’antichità.
Ma davvero crediamo sia tutta colpa di questa stramaledetta Cleopatra? Davvero una città senza piano regolatore, senza fogne, senza mai un solo intervento di messa in sicurezza, di scavo e di salubrità per i tanti rigagnoli che da sempre hanno accompagnato, come le vene di un corpo sano e vigoroso, le nostre mille urbanizzazioni negli oltre 2.700 anni della nostra storia, davvero pensiamo che tutto questo alla fine non abbia un prezzo? C’è sul serio qualcuno che possa anche pensare che sia tutta colpa di Cleopatra?
Ed il mare? E il golfo? Li abbiamo degradati, abbruttiti e incarcerati con cemento, liquami e quant’altro la nostra lussuria da business ci consiglia per il “benessere” senza se senza ma. Un golfo che attende da oltre 40 anni un progetto di escavazione che quanto meno attenui quel processo distruttivo che ha portato il fondale a crescere di 11 centimetri all’anno, cosa che fra non molto le navi finiranno per arenarsi ancor prima di toccare terra.
Una foia costruttiva che ci sta mangiando ogni goccia di mare che il buon dio ha deciso di lasciarci in eredità. Il nostro golfo lo abbiamo conosciuto quando ai bagnetti piuttosto che all’isola di mezzo o a tappaiu ci si faceva il bagno con le famiglie, gli amici o i compagni di scuola. Adesso una banchina dopo l’altra, una sopraelevata sopra l’altra, un tunnel all’americana in attesa del prossimo, ci stiamo avvicinando a Civitavecchia perché così facendo crediamo di costruire il nostro futuro. Andiamo di fretta e non abbiamo tempo per altre discussioni. I nostri assessorati all’ambiente hanno il bugdet giusto per comprare qualche busta della spesa biodegradabile, ma il futuro non aspetta e non c’è tempo per riflettere. La politica, l’amministrazione della cosa pubblica fatta senza la natura e spesso contro natura, regala anche queste sorprese. Questi morti “ammazzati” dalla nostra fretta, hanno diritto di essere seppelliti senza altre chiacchiere e soprattutto senza lacrime di coccodrillo.
Nel silenzio, così come in silenzio e nell’apatia è arrivata la distruzione. L’acqua ed il fango, li toglieremo dalle nostre case e dalle nostre strade, ma la rabbia no. Quella serve per fare in modo che, tutti assieme, operiamo per un Futuro diverso. Un futuro senza fretta.
Salvatore Zappadu
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